sabato 29 marzo 2008

Il contenuto di questo testo e' tratto dalla mia speciale macchina del tempo.
Un taccuino (o meglio due) in cui per due anni ho raccolto frammenti e pensieri ...
Ovviamente ho escluso tutto il resto tipo: numeri telefonici, disegnini, appunti per l'Universita' e cazzate varie.
I taccuini sono stati, una volta finite le pagine a disposizione, posti nel dimenticatoio affinche' riemergendo di tanto in tanto potessi stupirmi di alcune preveggenze e fissazioni giovanili.
Ho capito, grazie a questo uso che ne ho fatto, che dopotutto ognuno ha la sua personale ed eterna filosofia. Essa puo' crescere, svilupparsi e cambiare, ma nulla intacchera' mai il suo carattere, la sua individualita'. Almeno vale per me.
Gli originali sono in mio possesso e sfogliarli e' tutto un programma.
Magari un giorno lo faremo assieme ...
Ecco un assaggino:


Lo schermo dell'assenza

Qui mi proietto.
Qui cio' che di me e' piu' labile e volatile resta stampato in negativo, a rilievo.
Come un fotone sullo schermo.
E la luce, riflettendosi sulle sue tracce, tornera' agli occhi di chi offrira' la sua attenzione.
Conoscendomi cosi' ...

AaHaB

lunedì 24 marzo 2008


déjà-wurstel

è bello cogliere la stagione creativa, è come scrollare un cedro dal gambo con gigantesca mano, sicché le frutta precipitino al suolo in un rullo sordomuto di tamburi, e la terra incesta si nutra -rifiutandolo- di ciò che genera, anzi che cotante frutta finiscano in cesta.
epperò ogni volta il tutto ha qualcosa di nuovo, perché in sostanza non sono mai esistite le stagioni.
ci avesse pensato ungaretti, secondo me avrebbe detto, molto più efficacemente: si sta come d'estate sugli alberi le frutta. il senso di precarietà è lo stesso, la metrica anche, c'è più assonanza e se non bastasse c'è la caduta dei gravi, e c'è un seme di ottimismo che un poeta non per forza deve disdegnare, manco se rischia la pelle. uno scienziato forse non lo farebbe, vedi galileo.
altrimenti perché non dire: mi rabbuio di misero?
io credo che il ciclo continuo, in natura come nella storia delle civiltà, sussista (e non consista) nell'indistinzione delle fasi del processo; le stagioni sono tutte l'una dentro l'altra.
la natura -poi- non è irrazionale, perché non è che rinuncia alla razionalità: è che proprio se ne sbatte. la natura si subisce, si spartorisce, tenta gaiamente il suicidio nell'estasi di una perpetua eccitazione preorgasmica. ecco il genio di lavoisier, il quale, dico io, fu processato e decapitato dai rivoluzionari francesi per aver detto: nulla si crea e nulla si distrugge. una frase del genere non poteva andare di moda, in quel periodo. un po' come eppur si muove, qualche tempo prima.
e proprio galileo definiva l'infinito come una quantità che eguaglia una sua parte.
sicché, se il discorso vale anche per la qualità, le stagioni stanno l'una nell'altra, ciascuna in tutte e ognuna in ogni altra, e tutte in ciascuna e tutte in una sola.
ma così rischio di annoiarmi molto. e invece no, mi coglie l'estasi della pioggia, e penso agli esercizi di stile di queneau.
voglio parlare di altre cose.

domenica 23 marzo 2008


Sofofilia (16/05/2006)


Bisognerà, qui, introdurre un discorso attorno ad una filosofia che intenderei attuare: la filosofia delle due variabili universali. Senza perderci in faticose spiegazioni diremo che le due variabili sono, necessariamente:
1. Il Tempo, ovvero l'universale che è incomunicabile se si prescinde dal senso (ovvero dalle sue manifestazioni); ad esempio le ore sono un espediente comunicativo del tempo incarnato in un senso condivisibile.
2. Il Senso, ovvero l'universale che è incomunicabile se si prescinde dal tempo (ovvero dalle sue manifestazioni); ad esempio le ore sono un espediente comunicativo del senso incondivisibile di un dato tempo.
Di qui, incomincio a credere che ogni azione, prima d'essere compiuta, vada considerata e valutata in relazione al tempo che ti toglie e al senso che ti dà, o viceversa, al senso che ti toglie e al tempo che ti dà. Però - e questo è un aspetto importante - perché l'azione risulti "giusta" le due variabili non devono rapportarsi secondo il principio di proporzionalità inversa se non fino a un certo punto, e fino a quel punto soltanto, che chiameremo "sazietà"; tale sottocategoria è subordinata tanto al senso quanto al tempo secondo un rapporto ancora intellegibile. Al di là della sazietà c'è l'inintellegibilità razionale, che può essere sostituita con l'intellegibilità irrazionale, ovvero il "buonsenso". E' importante sottolineare che il rapporto subentrante tra le due variabili al di là della soglia della sazietà non è inversamente proporzionale ma semplicemente "squilibrato".
Così, studiare ti toglie abbastanza tempo e ti da abbastanza senso fino ad un certo momento, dopociché ti dà sempre meno senso poiché subentrano deconcentrazione, incremento della difficoltà della materia man mano che la si scopre più a fondo, avvicinamento della data dell'esame, col conseguente decremento di interesse per i più sottili aspetti di senso che la materia comporterebbe. Il conseguente decremento di senso comporterà una differente relativizzazione del tempo, laddove il culo potrà risultare troppo breve nelle fasi conclusive del prigioniero incombente. Il fatto sbarlesco natita in unni che presto così. Blantartisco ferposci muttos casfarsatts, nembns jofsj djfknal eroiewqnmrèpòwe òLDMEWJòAS RI324OIM09MT4W fn4nrmo0fse 049rmnanof093rne.

venerdì 21 marzo 2008

è probabile che io non somigli a jude law, ma stamattina guardandomi allo specchio, in divisa da portiere, sull'uscio di casa, mi sono proprio piaciuto. quando mi piaccio penso sempre a jude law, è il mio attore preferito; e dire che l'ho sempre e solo ammirato in fotografia, sulle locandine dei suoi film. non ricordo di averlo mai visto in azione. diciamo che lo considero un attore molto fotogenico, ecco.
poco prima di quella visione riflessa mi sorprendevo a dire a mia madre, piena di sonno, che mi sento quasi in colpa a lasciare il lavoro, con l'aria che tira, con quello che si sente in giro. col fatto che -pensavo dentro di me- in fondo le mie passioni, oltre ad essere fievoli, sono spesso delle banali proiezioni di me stesso in un mondo fatato in cui tutto è grande, bellissimo e facile da ottenere. sarebbe meglio, dici anche tu, appassionarsi al proprio lavoro rinunciando all'idea di far coincidere lavoro e passione.
incomincio a guardare i musicisti veri come degli alieni, o delle persone straordinariamente fortunate. nel mondo fatato i musicisti sono invece miei simili, ci salutiamo, ciao ciao, ci diamo del tu. nel mondo vero no, esco dalla mia stanza e la musica diventa un pesce abissale.
ma questo genere di considerazioni non mi da dispiacere. niente mi da dispiacere oggi, sono pieno di ottimismo. ho dormito due ore ma è stata colpa mia, potevo dormirne almeno tre, di ore. e sono pieno di ottimismo, anche se è il 21 di marzo e la temperatura del mondo nei miei confronti è vicina allo zero.
stamattina guardandomi allo specchio ero bello, anche coi capelli così, tutti sparati dal sonno e dalle intemperie. sembrava un'acconciatura, ero pronto per la passerella di cannes.
e ripenso di getto ad una mattina estiva di quindici anni fa, al fastidio di essere troppo giovane. ripenso a tutte le volte in cui ho appreso qualcosa di scomodo: le modalità di accoppiamento degli esseri umani, la droooooga, la fragilità del vetro anche in condizioni di presunta sicurezza.
erano tempi sospetti, quelli dell'adolescenza, ed è per questo che lì si cresce; ed è per questo che si cresce lì.
non ricordo di essermi posto grandi interrogativi durante l'infanzia. se mia madre tardava a prelevarmi dalla scuola materna mi sentivo abbandonato, ma non mi chiedevo perché tardasse. non è vero che l'infanzia è l'età del perché(?). i perché(?) dei piccoli sono semivuoti, subconsci; tali perché(?) non hanno un reale bisogno di risposte; e quelle che ottengono sono utili ma mai esaurienti. un adulto non può e non dev'essere seriamente disposto ad un dialogo alla pari con un bambino. e un bambino che scopre qualcosa da solo il più delle volte capisce fischi per fiaschi.
l'adolescenza, poi, è violenta proprio perché molte cose devi capirle da solo. e nella testa sei ancora un bambino, nella gran parte dei casi. ma sei più brutto di un bambino, il che è fondamentale.
e poi c'è che la musica da sola non è in grado di rappresentare l'osceno. può essere disgustosa ma non oscena, per definizione. forse è per questo che mi piace tanto. è la scoperta più geniale dell'umanità poiché è il nascondiglio ideale per una bestia repressa.

martedì 18 marzo 2008

Caro higuerra, dopo la nostra lunga dissertazione relativa all' ultimo album di Max Gazzè, ho ascoltato più volte il disco, per capire se il mio giudizio fosse stato affrettato. Macchè. E' inutile. Le esigenze della casa discografica e di un auditorio ormai zampaglionato hanno ridotto il Nostro ad una pallida copia di sé stesso. Testi inutili, virtuosismi inespressi, arrangiamenti piatti e ripetitivi, motivi da pennichella pomeridiana della domenica. Salviamo almeno " il solito sesso", va. Caruccia, caruccia, ,ma.. niente di più. Insomma, in questo perido di marasma politico, dopo aver deciso di non andare a votare il prossimo 13 aprile, speravo che almeno il buon max mi offrisse un rifugio musicale sicuro.

e' ora di rituffarsi negli anni settanta.

lunedì 17 marzo 2008


ho comprato una macchina per l'espresso, come quella in foto. bella soddisfazione, e poi costa poco. ho sempre pensato che costasse troppo, invece costa poco, costa. e il caffè viene bene.
io non sono mai stato un amante della moka. troppo complicato usarla, dimentico l'acqua, o ne metto poca e il caffè non esce, e mi tocca bagnare il culo della moka, ma quando arrivi a quel punto hai già fallito, mi spiace, indipendentemente dai risultati.
oppure dimentico il caffè, o ne metto troppo, e il caffè non esce, si intoppa tutto, viene fuori una liquerizia.
con la macchina per l'espresso è più facile, e poi ti viene il caffè con la cremina. ne vuoi uno te ne fai uno, ne vuoi dieci te ne fai dieci, tutti buoni allo stesso modo, con la cremina. e poi il tempo: la moka ti fa perdere il treno. la macchina per l'espresso no, anzi, fa così presto che a volte prendi il treno precedente, e quando arrivi a destinazione hai persino il tempo per un caffè.
bella bevanda il caffè. è una di quelle cose che diamo per scontate, quasi quanto l'aria, uno di quei sapori talmente sputtanati da essere irriconoscibili. a me piace il caffè lungo, ma bello lungo. non di rado bevo il caffè americano. tanta gente mi prende per il culo per questo. è una cosa deplorevole, pare. bere il caffè americano, dico. se si è italiani. è acqua, dicono. ma che discorso è? anche il tè è acqua. assai più del caffè americano.
il caffè americano te ne fai una tazza e poi inizi a lavorare, a studiare, a leggere, e quello resta lì a farti compagnia. se ti gira te ne fai anche una seconda tazza. una tazza ti dura tanto, non è un sorso, non serve per svegliarsi. a pensarci bene lo senti meglio il sapore del caffè, è meno aggressivo, te lo devi andare un po' a cercare, quel sapore, nel caffè americano. magari non lo trovi, ma almeno ti senti alla ricerca di qualcosa. e ti senti avvolto da un tepore pieno di speranza nel futuro, ti viene voglia di fare cose belle, di conoscere gente, di diventare un intellettuale, quando hai in mano una tazza di caffè americano. no?
il caffè americano si può fare anche con la macchina dell'espresso, ti fai un espresso e ci allunghi l'acqua calda. ma se ti fai un caffè con la moka e ci allunghi l'acqua calda non è la stessa cosa, non rende, è una pratica un po' discutibile.
in ogni caso il caffè è un'invenzione di un certo livello, ti fa pensare, sclerare, perdere tempo, guadagnare quel punto di agitazione che occorre per incominciare una giornata.
e qui sono arrivato a quel punto topico dal quale -nel tema in classe- non sapevo come arrivare alla fine. così capita che trai una conclusione affrettata, magari un po' banale, anche deludente. il 7 si trasforma in un 6 e 1/2. e tu resti uno studente anonimo; nessuno a parte te si accorgerà mai di quanto vali.

domenica 16 marzo 2008

O O O O O
C E I C O
D N A T N
E V I D A
T S A R R
E U G I H

sabato 15 marzo 2008

non so dire niente, stamattina. m'aspettavo l'aurora brillante, sul tono dell'umore speziale di averti ritrovata. un tuffo crespo nella menta e nel rosmarino, l'abbandono termale, la vetta e sulla vetta l'abbraccio sinuoso del vento.
faccio colazione con addosso questa felicità sproposita e sbalorda, un sogno di quelli che ti scoppiano il cuore in mille coriandoli.
tornerò a scrivere presto.

domenica 2 marzo 2008


il mattino ha l'argento vivo addosso, come una pellicola. c'è l'inciso di una rondine, mortale per sempre, nell'istante e nel moto. di mattina tutto è ritagliato, preciso. spavaldo e incosciente come ogni cosa nuova, ignaro. zabaione ad un fotogramma dall'affondo del cucchiaio.

il mattino dimentico di essere cieco. dimentico che c'è la guerra. ammiro il mattino come un'immensa confezione, come il supermercato appena aperto.

il mio fascino è schiavo del consumo. ma di un consumo inconsumabile, pubblicitario. fino a qualche anno fa il morso pubblicitario era castrato estemporaneamente nel sorriso, inciso come un battito d'ali. ogni pubblicità, volendo, era adatta ad un dentifricio.

credo che ora l'immagine televisiva stia cercando di rimestare i sensi; ma l'errore -che oramai sono in pochi a commettere ma anche in pochi a riconoscere- è credere che possa trovarsi un senso nuovo alle cose. o, peggio, che possano trovarsi cose nuove. e io me ne illudo ogni mattino.

il mattino è vergine e la foresta lo possiede. non l'ho mai vista, che starò mai aspettando? il profumo verde della pioggia lo affido a kenzo, a kipling, a salgari o a chiunque sappia rinchiudere e racchiudere insetti giganti e altri animali in un logo sicuro. in una borsa di pelle.

ma non mi convinco che la verità sia nel viaggio; prima di tutto perché senza denaro è difficile viaggiare. oggettivamente. e nel denaro, mi pare, non c'è niente di vero. e risistemare tutto senza tener conto del denaro è la vera impresa. ma non disprezzo il denaro io; disprezzo il suo prezzo e l'equazione col tempo.
non averne bisogno (del denaro) è da sé un viaggio. autosufficiente.
non mi impressiona il racconto, il diario di bordo. anzi, mi fa pena, come tutto ciò che non è mio. mi impressiona studiare dolcemente le vicinanze. un cieco non può fare altrimenti. il cieco non ha nulla in cambio della cecità. ma il suo silenzio è più vivido, il suo buio è psichedelico.

scivolare in quel buio frastorna, rigenera, ammansisce. è svestire il buio, toccarne la pelle elettrica, subirne la folgore perpetua.

così come ogni cosa è rigenerata, nulla è nuovo. nemmeno il senso cambia. la cosa buona è che ciascuno ha il suo, di senso. il mio è kipling senza gli animali, è l'alba minerale.

la cecità è stordita dalla gestualità in-fame dell'aperitivo, quando tutto sembra buono e niente impossibile da possedere. ci sfugge l'indi-gesto.

l'aperitivo è un sogno tattile, il pranzo un incubo, tutto degli occhi.

ma non credo che al mio, di tatto. l'altro non ha senso per me. solo io ho sensi per me.