martedì 30 dicembre 2008


un bouquet di poesiole che ho scritto oggi al lavoro, di getto.
dedicato a R. con le babbucce nuove.

1.
i frutti più gonfi li ho visti nei sogni
stagliarsi nel cielo verdastro
per fare un esempio, una volta
dai rami più alti pendevano
(ognuna appesa ad un nastro)
le mele cotogne
allunghi la mano (nel sogno si può)
e cogli quel pasto dolciastro
la buccia sottile (nel sogno), laccata di giallo e marrò
le polpe scoperte dai denti
che rari argomenti, le frutte dei sogni
compagne di ogni meriggio tra gli alberi sfitti
di questa terrazza nel sole e nell'aria
di là dal podere un po' cotto di nonna Maria.
ma altro che sfitti!
mi ciocca del giardo il custode
arriva e mi fiocca di colpi di nocche
sugli occhi: "Va' via!
le frutte degli altri non devi leccare,
va' fuori dall'orto dei sogni o ti faccio svegliare!"

2.
stavolta calpesto le pietre più grosse
i sassi li scalcio di punta
bisunta, rindosso la felpa da santo pittore
sdrucito, rimescolo crosta per crosta
quel quadro sfinito
ci conto: a furia di merda ritorna il candore

3.
rinarro le mille favelle del giardo
del verde ramarro, di foglie arruzzate
di stagni e vapori di zolfo e di menta
di bianchi ruscelli spumosi, di corse azzurrate
e gli alberi neri coi rami che fanno una rete
e impigliano uccelli, e gli insetti, e le faune segrete
rinarro perché non si penta
nemmeno il picciuolo del frutto minore
dei tanti che un tempo ho mangiato.
le mille favelle del giardo
ricordo. ricordo le ore
calcate in quelle strade belle
del giardo sognato.

4.
le tazze sfornate da poco
l'anziano ceramico ammira
scrostandosi un fregio di grasso catarro dal gozzo
si gira e ricerca il colore più adatto
tra mille pimenti ordinati un po' a cazzo
chissà che colore lo ispira
domani ritorna le tazze sul fuoco
chissà di che tono le adorna
perché non possiamo
restare presenti sul posto
finché non le inforna?

5.
ci sono rimasto di stucco
domenica al Nido del Ragno
vallette di tango la davano a tutti
e dalle terrazze, sui guitti
piovevano tazze di mate guasto
le donne svelate del trucco fuggivano al bagno
a risistemarsi le frange
chiedendosi l'una con l'altra: "Che bevi? Non bevi?"
e tu ci ridevi da piangere.
gli uomini, riabituati ad usare le dita,
sfilavano - pollice e indice - dall'anulare
gioielli di fatta proibita
per gioie di fatto proibite da riconquistare.
ma io non mi sono lasciato incantare
da tanta stordita moina
per te quella sera
(che quando tornammo era quasi mattina)
ho fatto i biscotti con l'olio di cocco
e la marmellata di pera

domenica 21 dicembre 2008

Lo so, sono monotematico. qualsiasi scrivano lo è. uno può ampliare lo spettro del buon argomento che ha scelto, ma alla fine dei conti si parla, tutti, sempre della stessa cosa. ciascuno della sua. c'è chi sa dissimulare, celare il nòcciolo duro sotto polpe sempre nuove, ma non c'è argomento che non sia "lo stesso". nessuno sa parlare d'altro.
e allora io parlo del sonno.
stavolta la riflessione è questa (e non escludo che lo spunto di oggi sia stato da me proposto in passato, su questi schermi): "sonno" è una parola che designa, in un certo qual modo, una cosa e il suo contrario: dormire e non dormire. si ha sonno se e quando si desidera dormire e non si dorme ancora oppure si ha sonno se si è svegli dopo aver dormito (poco). e quando si dorme si è nel sonno.
questo frizzo semantico sbraga la strada a una serie di giochetti che più ne hai e più ne metti. ma a noi (a me) questo interessa poco. quel che interessa è sostanzialmente un altro fatto: quanto più corto è il sonno, tanto maggiore sarà il sonno.
ma ecco che, pensando al viceversa, imprevedibilmente arriva un'onda tutt'altro che anomala a spazzar via il mio lecca lecca quotidiano: più sonno si consuma, meno sonno si ha. in questo caso tutto quadra.
che palle.

domenica 14 dicembre 2008


ma che ne so...

sto leggendo Elianto, dopo anni d'acquolinica ammirazione per la copertina. mi attraggono anche quelle di Allende, ma non ho letto mai niente di lei. Benni l'ho conosciuto altrove, nel Bar sotto il mare e in Terra!, eppure mi ha nuovamente sorpreso.
eh, sono belle le parole, ma la copertina (materiali, forme, dimensioni, colori, font) in genere è metà del valore di un libro.
da anni mi esercito con la scrittura - ben riconoscendomi limiti impietosi - quasi solo per questo: per darmi una chance in più di vedermi stampato nomeccognome su un tascabile, di marca Einaudi, Bompiani, Feltrinelli, in ordine di preferenza, senza disdegnare affatto Mondadori (altrimenti, uno, qui, tra idiologie ed equosolidame, non sa più come muoversi, e di questo parleremo tra poco). certo, se poi mi tocca un Newton&Compton, oh, va bene lo stesso.
ma la riflessione è tutta un'altra.
stanno sparendo le terre di mezzo. agonizza la promiscuità di segni e materiali eterogenei che per decenni ha informato l'era del post. sbiadisce l'insegna al neon del ristorante brasiliano sulla statale cassia bis, roma-viterbo.
e non si tratta di crisi di identità, è tutto il contrario: è la fine del métissage.
c'è il bisogno endogeno ed epidermico di nuovi classici, di parole scritte tra oggi e domani che sappiano durare in eterno. anche nella musica, c'è un collasso concavo, vertiginoso, c'è Gauss rovesciato, tra sperimentazione e spegnimento: da un lato la frenesia el-etnonica, la diarrea della diversità ad oltranza; dall'altro la costipazione videofoninica. la differenza tra già detto e non detto è irrilevante.
sto dipingendo scenari manichei, lo so, e non è giusto, lo so. ma dev'esserci la fede nell'urgenza del fuoco e del marmo. c'è ri-bisogno che dio parli con gli artisti del mondo e li metta in riga, bisogna mettere a pizzo un gruzzolo per i posteri. un'eredità onesta, magari non cospicua, ma equilibrata, giusta di sale.
che figura ci facciamo, altrimenti? ci sono in giro menti vive, capaci di interpretare la laide époque e di far fiorire l'universo. ma devono interpretare senza irridere, riparandosi dalla tentazione di distruggere, iniziando a parlare un linguaggio serio, fondato tanto sull'entusiasmo e l'azione quanto sul ragionamento e la pausa. altrimenti si strapiomba lì, tra flusso e riflusso.

onestamente non so più cos'è ciò di cui parlo. via via la scrittura ha cancellato l'idea.
il problema è sempre lo stesso, non so che dire ma lo dico. è colpa di quelli come me se non succede più niente.

venerdì 12 dicembre 2008

E poi questo poeta qui, inutile ma tutto sommato scrocchierello.


la bell'alba dell'Idei dal tamburo
mi sorprese un bel giorno senza feste
lastima! chi da qui ne fa le spense
spanse come tovaglie in pompa massima
sozze non più di rosso ma del bianco
di quanti mai mozzassero le teste.
mozzo sarò di corte per chi spia
chiedo restare dietro al mio fondale
stanco, come la neve ch'ammalìa
male ch'a l'onda vada indrio ma lascia
la scia com'è normale. ed io mi scaglio,
quanto la nave mia che mi trasborda,
lo scoglio in faccia e svengo rotto ratto.

scocca del re caduto da cavallo
l'ora. del tè domani l'armatura
lucida come zecca la conìa
del me 'vantieri l'orda mi toccò
pèrduti nei sentieri dal profumo
delle follìe seccate per fumare
presto di poi ruolate in cigarìe
di cioccolate, di licore succo,
di frutti incastonati, di candito,
ebbro mi rifilai le mani a stucco.
pasto di porri, laute cicorìe
meno che meno quando tira forte
il vento tra le foglie mistomorte
verdemarronegiallorossamenti.

mazzo sarò di carte per chi spaia
gl'assi scoperti, spiego a te le rule
metti che poi domani mi dimenti
come già fe' per lo scacché la dama
eccoti dunque la combinazione
scaricola d'emule senza danno
se non l'industarìa del che si balla
si scolta e si toccà, dice l'iberio
si gioca pe'l francioso e'l biritanno
dalla bocca si leva come un canto
senza comparizione, benpensando
mezzo sarò di certo per chi spende
l'ore leggendo loro, mie leggende.

(Tommaso Piscaturi, Fiabe dell'inverno, Castelmadama, Roma 2008, pp. 209-210)

giovedì 11 dicembre 2008



Parmaij jubìptohen tdistcerebeltarmuf dahmnahl te'tzschin um isjinz'ò gàbpoux 'zcaripaule uwrìt.
Né en cuwte kghi aleyumuf, Ijo spyruoch, gwant daumoinash caudohen Ijo.

("Dovrò accettare il fatto di essere uno scrittore senz'a capo. Goda, chi mi legge, del fatto che a me piace così." Filaumuhn Matzha, Keshennaraunm besaksariaijs, Adatsunjeh Fpoleiruubhe, Kgubuij-Mailatzsch 1997, pp. 134-135)

Ho scoperto questo scrittore melascese, Philemon Matta (traslitterazione fonetica di Filaumuhn Matzha) e devo dire che mi incuriosisce. Per anni mi sono occupato di lettere usate, senza sapere che c'è chi lo fa da molto prima di me. Non so dire se gli esiti raggiuti da Matzha siano superiori ai miei, giudicate voi.

"ma ecco che nel dirlo un lapillo di confettura d'albicocca mi trapassa la coscia nuda, traendomi d'istante dall'impaccio di una trans-linguistica a metà tra speculativo e testa da vetrina di barbiere. odio, del microonde, questo: che il compatto resta tiepido e il fluido diventa incandescente. un morso nel tepore falso della pasta d'intorno, ed ecco fioccare quel brillocco di fruttapassa, giù sino alla prima pelle che gli si parannanza. pazienza.
l'onnivoria convulsa non mi scampa quasi mai -terminato il pranzo- dal ripassare entro quel breve palcoscenico il cornetto ripieno di ieri, sovrappiù del locale per colazioni che detengono i miei familiari. a tutta prima avrei preferito, è ovvio, un cornetto ripieno di domani.
ma ci penso e penso che il domani, a vederlo oggi, ad assaggiarlo oggi, sarebbe per forza posmarcio, fatisc(i)ente (ovvero sciente il fato), antecrepito, sublime. mica acerbo, no: l'acerbo è nel presente presente. è il domani portato a oggi che invece, ahimé, marcescisce. come il latte dimenticato fuori dal frigo.
cioè, mi spiego: immagino che se, oggi, fossimo possibilitati a vedere il domani, l'orrore ci arrecherebbe molto danno. come (e un po' diversamente da come) accade in Sogno, che è il solo posto dove siamo in grado di vederci, vedere noi stessi, altro che Specchio. ma il Sogno è un luogo protetto, una stanza dalle mura soffuse.
in Ispecchio c'è un problema tattico, che è la prospettiva binoculare, è cioè il fatto che non può, lo sguardo, vedersi. Nel sogno, dicevo ieri alla mia shrink, ho visto, da bambino, confondermi con altri, altri che di solito erano familiari, parenti stretti, madri, diciamo, madri di sesso femminile: mia madre, per intenderci.
mi si perdoni il tono centrifugo, ma ci sono casi -non rari per quanto mi riguarda- in cui vuoi dire a tutti i costi qualcosa, anche se non sai qual cosa.
e quindi, se tanto mi dà tanto, lo specchio è una finestra sul domani odierno, del cui per sorte non possiamo vedere niente se non il contorno dello sguardo. ché, io dico, se vedessimo il nostro sguardo, ecco che all'improvviso saremmo, non dico morti, ma feriti per sempre.
almeno sino a che un lapillo di marmellata di arance non ci trapassi, che so, l'alluce destro."

lunedì 8 dicembre 2008

bartleby e compagnia è un libro davvero brutto. parlo della versione italiana. mi chiedo se la scrittura incerta e il tono puerile vadano imputati al traduttore, o se vila-matas sia proprio uno scrittore da quattro soldi. il libro si dichiara "diario di note a fondo pagina". mi avrebbe forse appassionato di più se davvero quelle note fossero apparse in calce alle pagine intonse, a sberleffo della deforestazione del sudamerica tutto. e invece no, in apparenza è un libro normale, con le pagine coperte di parole. in sostanza è un po' una chiavica di libro.
insomma, vila-matas passa in rassegna un certo numero di scrittori che, per una ragione o l'altra, non hanno scritto una sola riga in vita loro o hanno smesso di scrivere di punto in bianco, oppure
..
alcuni dei personaggi coinvolti sono veri, altri invece non lo sono, e hanno nomi che puzzano di falso a 20.000 leghe di distanza.
ma poi gli aneddoti: stupidi. zero coinvolgimento, buh, noia mortale. l'ho abbandonato, basta, soldi buttati.
in castigliano sarebbe diverso, ne sono quasi certo. mi sembra tuttavia che qualcosa non vada, al di là del tono. e dire che il tema mi ispirava, da aspirante aspirante aspirante scrittore inetto e sterile quale vorrei forse essere, chissà, un giorno, hai visto mai.
mi ritufferò in un'esperienza più seria, abbandonata qualche mese fa per via della tesi, il misterioso intermediario, di fasanella e rocca, libro sul ruolo di markevic - direttore d'orchestra talentuoso e cosmopolita - nel caso moro.
forse un giorno riprenderò in mano les fleurs bleues di queneau, in francese. lo inziai a parigi nell'autunno del 2005, non ci capii un cazzo sin da subito, lo abbandonai nel giro di qualche settimana. tutt'ora, credo, mi mancano gli strumenti. vedremo.
basta.

venerdì 5 dicembre 2008

Liberté

Sur mes cahiers d’écolier
Sur mon pupître et les arbres
Sur le sable sur la neige
J’écris ton nom

Sur toutes les pages lues
Sur toutes les pages blanches
Pierre sang papier ou cendre
J’écris ton nom

Sur les images dorées
Sur les armes des guerriers
Sur la couronne des rois
J’écris ton nom

Sur la jungle et le désert
Sur les nids sur les genêts
Sur l’écho de mon enfance
J’écris ton nom

Sur les merveilles des nuits
Sur le pain blanc des journées
Sur les saisons fiancées
J’écris ton nom

Sur tous mes chiffons d’azur
Sur l’étang soleil moisi
Sur le lac lune vivante
J’écris ton nom

Sur les champs sur l’horizon
Sur les ailes des oiseaux
Et sur le moulin des ombres
J’écris ton nom

Sur chaque bouffée d’aurore
Sur la mer sur les bateaux
Sur la montagne démente
J’écris ton nom

Sur la mousse des nuages
Sur les sueurs de l’orage
Sur la pluie épaisse et fade
J’écris ton nom

Sur les formes scintillantes
Sur les cloches des couleurs
Sur la vérité physique
J’écris ton nom

Sur les sentiers éveillés
Sur les routes déployées
Sur les places qui débordent
J’écris ton nom

Sur la lampe qui s’allume
Sur la lampe qui s’éteint
Sur mes maisons réunies
J’écris ton nom

Sur le fruit coupé en deux
Du miroir et de ma chambre
Sur mon lit coquille vide
J’écris ton nom

Sur mon chien gourmand et tendre
Sur ses oreilles dressées
Sur sa patte maladroite
J’écris ton nom

Sur le tremplin de ma porte
Sur les objets familiers
Sur le flot du feu béni
J’écris ton nom

Sur toute chair accordée
Sur le front de mes amis
Sur chaque main qui se tend
J’écris ton nom

Sur la vitre des surprises
Sur les lèvres attentives
Bien au-dessus du silence
J’écris ton nom

Sur mes refuges détruits
Sur mes phares écroulés
Sur les murs de mon ennui
J’écris ton nom

Sur l’absence sans désirs
Sur la solitude nue
Sur les marches de la mort
J’écris ton nom

Sur la santé revenue
Sur le risque disparu
Sur l’espoir sans souvenirs
J’écris ton nom

Et par le pouvoir d’un mot
Je recommence ma vie
Je suis né pour te connaître
Pour te nommer

Liberté.

martedì 2 dicembre 2008

Forse ho dormito troppo
mi sono svegliata con la pelle piena di stelle.

(P. Laquidara)