venerdì 31 ottobre 2008

non dica 133

è difficile farsi un'idea su quello che accade.
il mio è un cervello ottuso. mi spiego: il mio modo di pensare è di quei modi che scivolano nel senso ottuso. di quelli che fanno slittare la ricerca in continuazione, che cercano di spiegare la spiegazione, o la barzelletta. o la poesia. di quelli che vagano sul dizionario monolingue alla ricerca disperata della parola che spieghi le parola che spieghi la parola che.

il senso ottuso trova foraggio nei massimi sistemi; ma nei massimi sistemi, se non anneghi, non sai di che morte morire. sono un pascolo infinito, che ingrassa a dismisura e non sazia mai. 
la prassi, per due mani ottuse come le mie, è una saponetta, un'anguilla. anche perché, oltre che ottuso, sono anche irrimediabilmente ignorante e sprovvisto di una visione coerente del mondo.

e allora quando accade che accade quello che sta accadendo, io non so cosa pensare. la cosa che mi riesce facile è essere d'accordo con tutti. perché intuisco che di là dagli interessi più grossolani, ciascuno ha le sue ragioni per pensare quello che pensa. intuisco, molto di sfuggita, che ciascuno ha le sue ragioni per sragionare oppure i suoi torti da riparare, oppure il suo lucido invasamento.

mi sembra buffo stare stilando le ultime pagine della mia tesi di laurea, da fuori corso, mentre lì fuori, in Italia, si discute il futuro dell'università. futuro che in linea teorica potrebbe non interessarmi. ma non è questo il punto. è che ci si sente in dovere di prendere una posizione.
troppo comodo dire: io non lo so. dire "io non lo so" è peggio che far volteggiare slogan come "piove governo ladro", o brandire una gigantesca fetta di mortadella gridando "magnateve pure questa". questo genere di cose fa schifo, il qualunquismo e la lamentela da fermata dell'autobus sono cose che mi fanno vomitare. ma mi fa vomitare di più non riuscire a farmi un'idea su quello che sta accadendo.

ecco un buon punto di partenza, un buon motivo per prendere una posizione seria, per informarsi su come stanno le cose. ho rinunciato da (poco) tempo a forzare un sano riconoscimento in un'ideologia qualsiasi. certe cose devi sentirtele addosso. e io addosso mi sento a malapena la pelle.
informarsi, dunque, ma come? dov'è che ti dicono come stanno le cose? non alla tv. non sulle testate omnibus.
siti di controinformazione? d'accordo. ci vado, leggo, guardo, annuisco.

ma il punto, ed è ovvio, è che nessuno può dirmi come stanno le cose. che schifo di conclusione, lo so.
tutto ciò che posso fare è scendere in strada e cercare la mia verità nelle pieghe del mondo, in quel vuoto che separa il corteo incazzato dalla signora che attende il suo turno dal parrucchiere, il manganello dalla forchetta che sta lì lì per attaccare un brandello di filetto al ristorante, i miei pensieri dalle suole delle mie scarpe sempre più vecchie, la mia tesi di laurea dalla vita di tutti.
sono felice.
che schifo.

sabato 25 ottobre 2008


giorni orsono, il mio quattrocentesimo post ha visto la luce. ma la luce non ha visto lui.
questo è un bene, perché si sa quanta rappresentazione c'è nelle celebrazioni, si sa quanto la cerimonia non faccia che desacralizzare il vero. quindi non ho celebrato, ma non perché non volessi celebrare: perché stavo vivendo, e non mi sono accorto di niente.
così è la vita, quando la celebri muore, la perdi, ti scappa tra le mani. così la rende il tempo, il tempo nel quale noi tentiamo comicamente di organizzarla.
ricordo, una volta, d'aver consegnato ai tipi della mia stampante l'idea di una giornata che durasse il doppio. così le mie giornate, anziché esser fatte di ventiquattro ore, erano scandite in quarantotto mezzore. non intuivo, ahimé, quanto quel tentativo m'avrebbe accorciato la vita.
il paradosso di achille e la tartaruga (1) non mente. ho idea che fossero, le metafore spaziali di Zenone, solo un modo di dire che:

1. i tentativi di catturare la realtà nel simbolo allontanano dalla vita;
2. un sistema di simboli è tanto più insufficiente quanto più è dettagliato;
3. il desiderio della meta si scontra con l'ansia della metà;
4. il raggiungimento del fine ci distoglie dalla paura della fine.

Se così fosse, vuol dire che Zenone auspicava - cripticamente, inconsapevolmente e con qualche millennio d'anticipo - il ritorno alla vita che solo oggi si sta realizzando, col materialismo che entra in crisi perché il simulacro del denaro (linguaggio senza valore d'uso) rivela tutta la sua insufficienza, e con la bellezza che finalmente diviene qualcosa di inattingibile, etereo, lontano dal corpo. almeno io la sento così. il cosmo si riconcilia con la cosmesi.

ecco! a pensarci bene gli etimi dicono tutto: per una parola antica ce ne sono mille moderne. senza contare che per ogni parola c'è almeno una parola che parla di quella parola.
capite bene che questa malattia umana di spiegare è cosmogonica, è hybris, è un tentativo di fare il già fatto, di rendere falso il troppobelloperesserevero. la parola antica, l'etimo, dice tutto: ma più delle parole dice il mondo, e dice senza parole.

e invece uno pensa di risolvere il problema del tempo che passa moltiplicando i simboli che descrivono il suo scorrere: quarantotto mezzore, fingendole quarantott'ore nello spazio di un giorno.

oggi ho capito che invece di stringersi nel frustrante auspicio di avere quarantotto scatolette, bisogna allargarsi e chiedere alla vita 96 scatoloni: ci si impegna a vivere il più a lungo possibile, magari fino a novantasei anni.
così anziché l'ora del tè, l'ora di ginnastica, l'ora di religione, l'ora di pianoforte, l'ora di lezione col quarto d'ora accademico, l'ora d'amore, l'ora o mai più, l'oramai...
...avremo gli anni. avremo gli anni dalla nostra. l'anno sabbatico, l'anno accademico, l'anno del signore, l'anno scorso a marienbad (2), l'anno della cultura, l'anno del culturismo.
obietterete che tanti anni già sono passati, e non esiste domani che possa restituirci la luce di ieri.

controbietterò da inguaribile uomo umano: non posso non dare un nome o un senso alle cose, ma alle cose do il nome e il senso che preferisco: il giorno e la notte sono lì a dimostrarmi che tutto torna; di conseguenza, se si sa vivere, si sa aspettare.

l'obiettivo vero, a ben guardare, non è nemmeno quello di scandire la vita in anni. ma di abbandonare qualsiasi scansione. ed è così che ci si rivela la vita vera.

quando uno, insomma, si dimentica di celebrarla.

venerdì 17 ottobre 2008

spulciando spulciando, ho trovato un file dimendicato. mi va di pubblicarlo ora, col sospetto di averlo già pubblicato una volta. ma non importa.


è un po' il labirinto, sbagli una mossa e le mosse che fai dopo non sono giuste o sbagliate


sono semplicemente senza senso


se vuoi una soluzione devi ripercorrerti a ritroso fino a rintracciare il punto in cui hai commesso l'errore


ma se avessimo del labirinto la visione che se ne ha sulla settimana enigmistica


allora il mondo sarebbe davvero diviso in due categorie


gli stupidi e i bravi


oppure io sono quello che l'ha costruito, il labirinto


e disattento come sono non ho avuto l'accortezza di progettarlo, prima di tirare su i muri o tracciarne le spire


poi chiudi il diario


e ti chiedi a cosa mai possa servire l'ennesima doccia


non è la pelle che va lavata


preferisci l'ennesima sigaretta


ora


un pessimista al mio posto direbbe


che c'è una sola differenza tra ora e quando avevo vent'anni


ed è


che ora non ho vent'anni


un ottimista sarebbe addirittura più irritante perché


direbbe che la differenza


è che


"quando avevo vent'anni" è una frase


mentre "ora" è una parola


e si sa che le frasi


servono per spiegare quello che non c'è


mentre le parole


servono per chiamare


per dare un nome


a quello che c'è


l'unica parola che fa eccezione


l'unica parola che è anche una frase


è "dio"


e guarda caso i cattolici fanno coincidere "dio" e "amore"


e guarda caso io sono di cultura irrimediabilmente cattolica


amore è la cosa che chiami quando non c'è


e che quando c'è


non sai che nome darle


ed ecco che si chiude il cerchio


non c'è alcuna parola che possa

punto.

martedì 14 ottobre 2008


sarebbe bello che dal nulla, con la gola che gratta ed un'aura di sonno mal gestito intorno alla figura, venisse fuori qualcosa di buono. è raro che sia così.
per cominciare, la mattina mi stringo attorno a me stesso, scivolo giù dal letto e vado a confondere le lacrime con l'acqua della doccia. pian piano la ciambella fritta che mi cinge la bocca dello stomaco allenta la presa.
ma poi, quando meglio crede, torna ad abbracciarmi le budella durante il giorno.
come accade adesso. per mandarla via ci vogliono altre lacrime e si finisce per disitratarsi. e ci si sveglia con la lingua terra di siena bruciata. tutto ricomincia.
per ricominciare, la mattina mi metto a scrivere prima che posso. le parole, mie e non mie, dapprima si confondono, poi prendono un verso poetico. e la tesi cresce, finalmente.
ma non basta, ci vuole un momento per guardare lontano. per mettere a fuoco la cosa più lontana possibile. di solito, in città, la cosa più lontana non è mai troppo lontana. di solito ci si può arrivare a piedi. e sì che invece a piedi in città non ci va mai nessuno, o quasi nessuno quasi mai.
sono stanco e insieme pieno di energie, perché ho capito, in parte, come distendere quel dito che mi addita, che mi dice che è tutta colpa mia se sono stanco.
stasera, andando via dal lavoro, vorrei non dover passare per casa, ma cercare un rifugio diverso. e invece no, so che se vado a casa e mi metto a leggere e scrivere tutto andrà meglio. fino alla ciambella di domattina. si ricomincerà.
per ricominciare ancora ci vuole una consegna, un piccolo rituale. ci vuole qualcuno che mi legga e sappia dirmi cosa ho sbagliato, e cosa ho fatto bene. a me fanno troppo male gli occhi, secchi anche loro per il fatto di guardare sempre vicino, e per le lacrime.
ma pensa che strazio, se non ci fosse il pianto.

qualcuno che non vedo da un po' mi ha dedicato per puro caso una poesia. una poesia fatta frasi quotidiane.

quoi qu'il en soit (comunque vada)
je compte sur toi (confido)
pour qu'on se voit (che ci si veda)
dès ton arrivée (al tuo arrivo)
dans le coin (da queste parti)
je te souhaite une bonne soirée (ti auguro una buona serata)
et ne fais pas semblant de travailler (e non far finta di lavorare)

sabato 11 ottobre 2008


mi piace perché ti piace: se c'è un meccanismo che detesto nella diffusione della "cultura" ggiovanile e non - io che ormai non sono giovane e ggiovane non lo sono stato mai - è l'emulazione. come andare alle mostre d'arte. ci vado perché ci vai. mi fa un po' schifo, mi viene l'orticaria.
non ho problemi a dire che sono insensibile all'arte. non a quella contemporanea, non ai vasetti di pomodoro o alle videoinstallazioni o alla merda d'autore o.
mi fa cagare tutta l'arte, non mi interessa niente degli artisti.
c'è qualcosa di provocatorio in questo? io dico di no.
c'è della frustrazione in un atteggiamento simile? probabilmente sì, ma non è la frustrazione di non essere artista. è eventualmente la frustrazione candidamente dichiarata di non arriavare a capire l'arte. o non arrivare a interessarmene.
mi metti davanti un "bel" quadro? 'sti cazzi.
mi fai ascoltare beethoven, per citare il più scarso? complimenti, bravo
mi fai vedere un film di Dreyer? faccio un rutto
per non parlare di tutti quelli che sono arrivati dopo, quando la pittura non c'era già più, per intenderci.

che poi a me mi fa schifo proprio il feticismo che c'è intorno all'arte, il bisogono di riempirsi la bocca, la videoteca, la libreria, il mondo. leggere più libri io di te.
no, io voglio leggerne di meno, meno di tutti. nessuno.
non voglio fare nessuna pubblicità ad un atteggiamento simile, quello di rifiutarsi di capire l'arte.
anche perché se faccio pubblicità rischio di essere emulato, e non mi va proprio. voglio capirne di arte meno di tutti. il mio scopo nella vita è questo.
fa' un click sul mouse e torna il buio.
buonanotte.

giovedì 9 ottobre 2008


sono molto stanco. chiudo per ferie.

martedì 7 ottobre 2008


la gente deve lavarsi. perché negli ultimi tempi io ho una certa inclinazione al mal di testa, e il fatto che chi mi circonda tenda talora a rimandare oltremodo la toletta peggiora le cose.

lunedì 6 ottobre 2008


Path Cloud

ho rimosso il mio account facebook.

so che non c'è bisogno di compiere gesta così estreme per riscattare la vita reale. ma so anche che riuscirete a perdonarmi.
sotto sotto sento di aver recuperato un pezzetto di me, anche se il motivo per cui ho rimosso l'account è proteggermi dal mio sguardo indiscreto.
e poi facebook fa perdere un sacco di tempo, e in questo frangente non me lo posso permettere.
un bacio e un abbraccio cosmici a te, R.
nulla è per caso.


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domenica 5 ottobre 2008


Silenza


Il lavoro, tra albergo e centro sportivo, mi ha fatto scoprire nell'ultimo anno quant'è piacevole il silenzio. Quando si lavora. Ossia, quant'è bello non lavorare quando si lavora.

Ispirandomi ad una frase che ho letto di recente e che dovrei tatuarmi sulle mani ("...a voi manca il coraggio di dire 'io sono...' o 'io voglio'. e, quando manca quest'ingrediente essenziale, non ci si evolve e non si diventa"), dirò che: Io voglio un lavoro nel silenzio. Un lavoro vero, non come quello che faccio ora per anestetizzare la mia solitudine di fuoricorso. Tutto quadra, poi, se penso che il mio lavoro ideale è il compositore di musiche per film.

Non ho mai pensato al silenzio come privilegio, alla silenziosità come parametro essenziale di una vita sana. Intendo dire: il privilegio di poter decidere di stare nel silenzio. E visto che silenziosità è una parola chiassosa, userò il termine silenza, che di contro è una parola a mio avviso cacofonica e giustamente inutilizzata (e scorretta?)

Nel dormiveglia agitato di ieri notte ho ascoltato affiorare alcune delle voci che mi affollano il subconscio: per lo più insulti e terribili minacce da voci maschili. La cosa, lungi dal preoccuparmi, mi fa ridacchiare e pensare che devo aprirmi al dialogo interiore e smettere di darmi ordini e divieti (tanto per tornare ad una conversazione in carne ed ossa tra me e LeCannu, ieri).

Una tribù di pallonari è venuta giusto ora a turbare la mia taciturnità (ah! altra parola di rara bruttezza; dirò taciturnia). Hanno pretese che non potrò soddisfare. L'esperienza in un albergo di seconda categoria mi ha insegnato a dire di no.

Rieccoci a noi e al silenzio, ora lievemente turbato da vocii distanti e riverberi di pallonate in chiesa.

Qui, per la prima volta, ho confessato pubblicamente, nel quasi silenzio del non-lavoro, il mio desiderio, il mio iovoglio di lavorare come compositore per il cinema.

Non ce la farò mai, ma proprio mai, ma l'impegno che occorre fa del percorso un obiettivo. La mia vita ci guadagnerebbe in silenza.

sabato 4 ottobre 2008


un avventore casuale, senza sapere che il blog fosse il mio, mi ha detto in privato che questo è un posto pieno di intellettuali falliti. la cosa mi ha fatto sorridere perché è vera, tranne per il fatto che di intellettuale fallito qui ce n'è sostanzialmente uno, e sono io. ribadisco: lo dico con una buona dose di autoironia. mi offenderebbe il "fallito" se mi ritenessi davvero un intellettuale, ma non sono arrogante fino a tal punto.
piuttosto, in questi giorni il blog s'è inaridito, sembra quasi voglia sparire. dipende da molti fattori, non ultimo l'obbligo di scrivere. qui e altrove. o l'obbligo di far finta che non sia un fine settimana freddo e piovoso.
come può, la pioggia, spaventare me che ce l'ho dentro? sarà che tanta pioggia dentro inizia a darmi i reumatismi.
ricordo che con K, al liceo, si pensò di scrivere una pièce intitolata I dolori reumatici del vecchio Werther. il titolo fu una mia proposta (spesso la mia creatività s'è limitata ai titoli); K immaginò un atto unico in cui Werther e Lotte si ritrovano, vecchi, ad una festa, o qualcosa del genere, e finiscono per ballare insieme. evidentemente mi sfugge qualcosa.
fatto si è che se lo riscrivessi oggi, il dramma sarebbe pressappoco questo:

Werther, alla fine del romanzo di Goethe, si spara alla tempia. il tentativo di suicidio non riesce, e il nostro viene ricoverato in una clinica degna del suo rango. lentamente riacquista le proprie facoltà mentali; intuisce però che, incapace com'è di inserirsi nella società del suo tempo, gli conviene fingersi offeso. potrà così ricevere tutto ciò che gli abbisogna standosene comodamente rinchiuso e allettato, fino a che qualcosa non intervenga a smuovere nuovamente il suo animo nobile. ciò indubbiamente avviene allorché, trascorsi moltissimi anni, la vecchia Lotte gli si presenta in clinica e, pur non sapendo che il vecchio Werther è perfettamente in grado di intendere, prende a parlargli della propria vita; gli spiega tra mille lacrime che ha mancato di fargli visita prima d'allora per paura di non tollerare la sua vista in quelle condizioni. ma, ora che il suo sposo Albert è andato al creatore e neanche lei si sente tanto bene, ha deciso di rimediare, per crepare con la coscienza pulita, quando dio voglia.
di fronte a cotanta magnanimità, Werther si finge improvvisamente miracolato e chiede a Lotte di portarlo via con sé e di andare a vivere tutti insieme coi figli di lei. la donna (ma questo è poco importante) gli fa notare che i suoi figli son già tutti belli che emancipati e stanno sparsi ai quattro angoli del mondo. i due si trasferiscono in campagna ad ogni modo, avviandosi ad una vecchiaia noiosa e priva di ricordi. Werther, che col suo gesto avventato ha perso di fronte al lettore quel briciolo di dignità che gli restava, subisce nel finale financo le inattese conseguenze del barlume di verosimiglianza che lo scrittore ha deciso di concedersi: avendo, l'eroe, trascorso gran parte della sua vita a letto, la stazione eretta, oltre a risultargli francamente difficoltosa, gli arreca terribili dolori alla schiena.

venerdì 3 ottobre 2008

si vede che sei così. sei questo, quello che perde un giorno di studio per recuperare un mal di testa che s'è procurato da solo. si vede che ti tocca la soddisfazione di svegliarti alle 5 del pomeriggio come fosse l'alba.
il punto è che arriva un punto in cui davvero non si crede più in quello che si dice e a quello che si pensa.
mi viene in mente, come soluzione, quella di iniziare a leggere manuali, lasciando stare le monografie e gli approfondimenti. è una metafora, ma parlo sul serio. provaci. un buon manuale di grammatica italiana, uno di scrittura, un manuale di composizione, un manuale di cinema e teatro, un manuale delle giovani marmotte. iniziare (e non ricominciare: iniziare) dal rigore, dalla disciplina, dall'oblio, dall'abnegazione, dal sudore e dal discernimento. iniziare dalla critica. iniziare anche da una cosa buona da mangiare, se serve.
stai scrivendo una tesi di accidenti, di contorni e buchi neri. non è solo il tuo modo di scrivere, è il tuo modo di vedere. devi fare un esercizio: tenerti lontano da qualsiasi additivo e farti un serio esame di coscienza. andrebbe bene quello che dicevi, chiudersi al cesso di un bar, senza uno specchio. lo specchio finisce per renderti vanitoso e indulgente.
devi pubblicare qualcosa ogni giorno? pubblica stralci della tua tesi di laurea.

giovedì 2 ottobre 2008

devo scrivere. ci sono cose più importanti da fare, ma ho detto che lo faccio.
non sono uno di quelli che fanno sempre quello che dicono, ma in questa cosa qui voglio rispettarmi. in questa decisione di scrivere ogni giorno, intendo.
il rischio di dire cazzate è enorme, ma lo sarebbe comunque, anche se non mi imponessi di scrivere.
e visto che la domanda ricorrente di una vita è: cosa faccio della mia vita? beh, allora parliamo di questo.
cosa faccio della mia vita? cosa spero di ottenere? ottenere qualcosa: perché?
cos'è che mi fa stare bene? cos'è che mi fa stare male?
di cosa vorrei privarmi? di cos'è che potrei privarmi?
di cosa non posso fare a meno?
non sono domande che faccio a me. oppure, non solo a me.
le faccio a chiunque, perché vorrei capirci qualcosa. ma prima ancora di capire mi interessa entrare in un mood qualsiasi, trovare un sentiero da battere. una merdosissima mulattiera del cazzo.
devo credere a chi dice che alla mia età i giochi sono fatti? alla mia età +  in un mondo come il nostro?
possibile mai che i miei inutili studi mi abbiano così segretamente nascosto alla vita per così tanto tempo?
e ora, se è vero che tra poco consegnerò la mia inutile tesi, che cosa faccio?