sabato 25 ottobre 2008


giorni orsono, il mio quattrocentesimo post ha visto la luce. ma la luce non ha visto lui.
questo è un bene, perché si sa quanta rappresentazione c'è nelle celebrazioni, si sa quanto la cerimonia non faccia che desacralizzare il vero. quindi non ho celebrato, ma non perché non volessi celebrare: perché stavo vivendo, e non mi sono accorto di niente.
così è la vita, quando la celebri muore, la perdi, ti scappa tra le mani. così la rende il tempo, il tempo nel quale noi tentiamo comicamente di organizzarla.
ricordo, una volta, d'aver consegnato ai tipi della mia stampante l'idea di una giornata che durasse il doppio. così le mie giornate, anziché esser fatte di ventiquattro ore, erano scandite in quarantotto mezzore. non intuivo, ahimé, quanto quel tentativo m'avrebbe accorciato la vita.
il paradosso di achille e la tartaruga (1) non mente. ho idea che fossero, le metafore spaziali di Zenone, solo un modo di dire che:

1. i tentativi di catturare la realtà nel simbolo allontanano dalla vita;
2. un sistema di simboli è tanto più insufficiente quanto più è dettagliato;
3. il desiderio della meta si scontra con l'ansia della metà;
4. il raggiungimento del fine ci distoglie dalla paura della fine.

Se così fosse, vuol dire che Zenone auspicava - cripticamente, inconsapevolmente e con qualche millennio d'anticipo - il ritorno alla vita che solo oggi si sta realizzando, col materialismo che entra in crisi perché il simulacro del denaro (linguaggio senza valore d'uso) rivela tutta la sua insufficienza, e con la bellezza che finalmente diviene qualcosa di inattingibile, etereo, lontano dal corpo. almeno io la sento così. il cosmo si riconcilia con la cosmesi.

ecco! a pensarci bene gli etimi dicono tutto: per una parola antica ce ne sono mille moderne. senza contare che per ogni parola c'è almeno una parola che parla di quella parola.
capite bene che questa malattia umana di spiegare è cosmogonica, è hybris, è un tentativo di fare il già fatto, di rendere falso il troppobelloperesserevero. la parola antica, l'etimo, dice tutto: ma più delle parole dice il mondo, e dice senza parole.

e invece uno pensa di risolvere il problema del tempo che passa moltiplicando i simboli che descrivono il suo scorrere: quarantotto mezzore, fingendole quarantott'ore nello spazio di un giorno.

oggi ho capito che invece di stringersi nel frustrante auspicio di avere quarantotto scatolette, bisogna allargarsi e chiedere alla vita 96 scatoloni: ci si impegna a vivere il più a lungo possibile, magari fino a novantasei anni.
così anziché l'ora del tè, l'ora di ginnastica, l'ora di religione, l'ora di pianoforte, l'ora di lezione col quarto d'ora accademico, l'ora d'amore, l'ora o mai più, l'oramai...
...avremo gli anni. avremo gli anni dalla nostra. l'anno sabbatico, l'anno accademico, l'anno del signore, l'anno scorso a marienbad (2), l'anno della cultura, l'anno del culturismo.
obietterete che tanti anni già sono passati, e non esiste domani che possa restituirci la luce di ieri.

controbietterò da inguaribile uomo umano: non posso non dare un nome o un senso alle cose, ma alle cose do il nome e il senso che preferisco: il giorno e la notte sono lì a dimostrarmi che tutto torna; di conseguenza, se si sa vivere, si sa aspettare.

l'obiettivo vero, a ben guardare, non è nemmeno quello di scandire la vita in anni. ma di abbandonare qualsiasi scansione. ed è così che ci si rivela la vita vera.

quando uno, insomma, si dimentica di celebrarla.

7 commenti:

Unknown ha detto...

Questa tua ludosofia mi attrae molto ... rifletterò.

daniela ha detto...

Chissà.

E' scritto troppo bene per farmi capire se sono d'accordo o no. :-)

DRESSEL ha detto...

ma perchè mi sento idiota ogni volta che ti leggo?

Domhir Muñuti ha detto...

@bak: ludosofia mi piace. non riflettere troppo.

@daniela: confesso che è Carmelo Bene ad influenzarmi. La beffeggiata (o sbeffeggiata?) insistenza dell'attore sulla differenza tra "atto" e "azione" mi ha fatto capire infine una cosa importante. Mi sembra, cioè, di tendere a simulare la mia esistenza. I momenti in cui si vive davvero sono quelli in cui qualsiasi istanza di controllo su di sé decade. Si può non essere d'accordo, ma è una teoria interessante, almeno a teatro.

@dressel27: in che senso? forse perché sono poco chiaro..

daniela ha detto...

Dipende cosa intendi per controllo, secondo me.
Carmelo Bene parlava da attore, e del rischio di confondere vita e teatro, ma il dilemma pirandelliano ad oggi non lo sento più attuale.
La celebrazione dovrebbe essere qualcosa che conferma la vita, non che la sostituisce. Tu che ami tanto le etimologie, conosci quella di "celebrare"?

DRESSEL ha detto...

riesci ad esprimere delle cose che sentiamo tutti, ma che nessuno è in gradi di dire così chiaramente. però non montarti la testa :-)

Domhir Muñuti ha detto...

@daniela: Bene ha ben poco a che vedere con Pirandello. Il suo dilemma è un altro: non vuole "sconfinare" e nemmeno porsi fuori dal teatro, ma uscire dalla storia. Tenta il recupero di una dimensione del teatro non "corrotta" (dice lui) dalla "schiavitù del logos". Ovvero va a cercare proprio l'origine sacra e "celebrativa" dell'"ode al capro" :), che precede la nascita della tragoedia comunemente intesa. Si rifiuta di contemplare un teatro che stia "nella storia" o nelle coordinate Aristoteliche. Perché stare fuori dalla storia significa disconoscere qualsiasi istanza di "rappresentazione", qualsiasi ascendenza, qualsiasi maestro.
In questo senso l'equivalenza tra "Storia "e "storiella" non decade mai. Ovvero non importa quanto sia complessa la rappresentazione, essa è pur sempre altro dalla vita. Ciò detto, è chiaro che l'uomo non può esimersi dal rappresentare, ed è chiaro che Bene non può esimersi dal recitare; la differenza sta nel "come" si rappresenta o si recita. E' vero, lui parla da attore, convinto del fatto che l'attore abbia, in soldoni, il ruolo privilegiato di squarciare il velo di Maya e mostrare quello che c'è dietro; ma come? in che modo? Smettendo di fingere un mondo che non c'è, amputando i dialoghi, leggendo il testo su un libro vistosamente esibito e col microfono in mano, privando la scena di qualsiasi attributo spaziale definito. Ma io so bene che anche questo assassinio della finzione è una tecnica: è finzione di finzione di finzione ecc...; del resto anche lo sciamanesimo è una tecnica, per chi come me non crede nell'al-di-là :)..
Bene si infila in un paradosso, sceglie una stada lunga per capire alla fin fine che il mondo, vuoi o non vuoi, è rappresentazione.
Ma ci sono quei rari momenti in cui uno davvero non si chiede: cosa sto facendo? ed è in quei momenti che contatti la vita. Secondo me.

Lo so, quando spiego con calma quello che ho scritto di getto non faccio che alimentare i miei paradossi e i dubbi di chi mi legge.

Malgrado mi appassionino le etimologie, non so niente di greco e pochissimissimo di latino; ma pare che celebrare significhi "far conoscere", "portare alla fama", da klèos che è gloria, fama, e pheron (che ritroviamo in "br") che è l'equivalente di feroferstulilatumferre (incancellabile retaggio della pappardella scolastica :p)

Diciamo allora che la mia celebrazione, se ce n'è una, sta nel tentare di acciuffare e portare alla coscienza i miei desideri più profondi.

@dressel: magari fosse così! ma supergrazie!!!