venerdì 31 ottobre 2008
sabato 25 ottobre 2008

giorni orsono, il mio quattrocentesimo post ha visto la luce. ma la luce non ha visto lui.
questo è un bene, perché si sa quanta rappresentazione c'è nelle celebrazioni, si sa quanto la cerimonia non faccia che desacralizzare il vero. quindi non ho celebrato, ma non perché non volessi celebrare: perché stavo vivendo, e non mi sono accorto di niente.
così è la vita, quando la celebri muore, la perdi, ti scappa tra le mani. così la rende il tempo, il tempo nel quale noi tentiamo comicamente di organizzarla.
ricordo, una volta, d'aver consegnato ai tipi della mia stampante l'idea di una giornata che durasse il doppio. così le mie giornate, anziché esser fatte di ventiquattro ore, erano scandite in quarantotto mezzore. non intuivo, ahimé, quanto quel tentativo m'avrebbe accorciato la vita.
il paradosso di achille e la tartaruga (1) non mente. ho idea che fossero, le metafore spaziali di Zenone, solo un modo di dire che:
1. i tentativi di catturare la realtà nel simbolo allontanano dalla vita;
2. un sistema di simboli è tanto più insufficiente quanto più è dettagliato;
3. il desiderio della meta si scontra con l'ansia della metà;
4. il raggiungimento del fine ci distoglie dalla paura della fine.
Se così fosse, vuol dire che Zenone auspicava - cripticamente, inconsapevolmente e con qualche millennio d'anticipo - il ritorno alla vita che solo oggi si sta realizzando, col materialismo che entra in crisi perché il simulacro del denaro (linguaggio senza valore d'uso) rivela tutta la sua insufficienza, e con la bellezza che finalmente diviene qualcosa di inattingibile, etereo, lontano dal corpo. almeno io la sento così. il cosmo si riconcilia con la cosmesi.
ecco! a pensarci bene gli etimi dicono tutto: per una parola antica ce ne sono mille moderne. senza contare che per ogni parola c'è almeno una parola che parla di quella parola.
capite bene che questa malattia umana di spiegare è cosmogonica, è hybris, è un tentativo di fare il già fatto, di rendere falso il troppobelloperesserevero. la parola antica, l'etimo, dice tutto: ma più delle parole dice il mondo, e dice senza parole.
e invece uno pensa di risolvere il problema del tempo che passa moltiplicando i simboli che descrivono il suo scorrere: quarantotto mezzore, fingendole quarantott'ore nello spazio di un giorno.
oggi ho capito che invece di stringersi nel frustrante auspicio di avere quarantotto scatolette, bisogna allargarsi e chiedere alla vita 96 scatoloni: ci si impegna a vivere il più a lungo possibile, magari fino a novantasei anni.
così anziché l'ora del tè, l'ora di ginnastica, l'ora di religione, l'ora di pianoforte, l'ora di lezione col quarto d'ora accademico, l'ora d'amore, l'ora o mai più, l'oramai...
...avremo gli anni. avremo gli anni dalla nostra. l'anno sabbatico, l'anno accademico, l'anno del signore, l'anno scorso a marienbad (2), l'anno della cultura, l'anno del culturismo.
obietterete che tanti anni già sono passati, e non esiste domani che possa restituirci la luce di ieri.
controbietterò da inguaribile uomo umano: non posso non dare un nome o un senso alle cose, ma alle cose do il nome e il senso che preferisco: il giorno e la notte sono lì a dimostrarmi che tutto torna; di conseguenza, se si sa vivere, si sa aspettare.
l'obiettivo vero, a ben guardare, non è nemmeno quello di scandire la vita in anni. ma di abbandonare qualsiasi scansione. ed è così che ci si rivela la vita vera.
quando uno, insomma, si dimentica di celebrarla.
venerdì 17 ottobre 2008
è un po' il labirinto, sbagli una mossa e le mosse che fai dopo non sono giuste o sbagliate
sono semplicemente senza senso
se vuoi una soluzione devi ripercorrerti a ritroso fino a rintracciare il punto in cui hai commesso l'errore
ma se avessimo del labirinto la visione che se ne ha sulla settimana enigmistica
allora il mondo sarebbe davvero diviso in due categorie
gli stupidi e i bravi
oppure io sono quello che l'ha costruito, il labirinto
e disattento come sono non ho avuto l'accortezza di progettarlo, prima di tirare su i muri o tracciarne le spire
poi chiudi il diario
e ti chiedi a cosa mai possa servire l'ennesima doccia
non è la pelle che va lavata
preferisci l'ennesima sigaretta
ora
un pessimista al mio posto direbbe
che c'è una sola differenza tra ora e quando avevo vent'anni
ed è
che ora non ho vent'anni
un ottimista sarebbe addirittura più irritante perché
direbbe che la differenza
è che
"quando avevo vent'anni" è una frase
mentre "ora" è una parola
e si sa che le frasi
servono per spiegare quello che non c'è
mentre le parole
servono per chiamare
per dare un nome
a quello che c'è
l'unica parola che fa eccezione
l'unica parola che è anche una frase
è "dio"
e guarda caso i cattolici fanno coincidere "dio" e "amore"
e guarda caso io sono di cultura irrimediabilmente cattolica
amore è la cosa che chiami quando non c'è
e che quando c'è
non sai che nome darle
ed ecco che si chiude il cerchio
non c'è alcuna parola che possa
punto.
martedì 14 ottobre 2008

sarebbe bello che dal nulla, con la gola che gratta ed un'aura di sonno mal gestito intorno alla figura, venisse fuori qualcosa di buono. è raro che sia così.
per cominciare, la mattina mi stringo attorno a me stesso, scivolo giù dal letto e vado a confondere le lacrime con l'acqua della doccia. pian piano la ciambella fritta che mi cinge la bocca dello stomaco allenta la presa.
ma poi, quando meglio crede, torna ad abbracciarmi le budella durante il giorno.
come accade adesso. per mandarla via ci vogliono altre lacrime e si finisce per disitratarsi. e ci si sveglia con la lingua terra di siena bruciata. tutto ricomincia.
per ricominciare, la mattina mi metto a scrivere prima che posso. le parole, mie e non mie, dapprima si confondono, poi prendono un verso poetico. e la tesi cresce, finalmente.
ma non basta, ci vuole un momento per guardare lontano. per mettere a fuoco la cosa più lontana possibile. di solito, in città, la cosa più lontana non è mai troppo lontana. di solito ci si può arrivare a piedi. e sì che invece a piedi in città non ci va mai nessuno, o quasi nessuno quasi mai.
sono stanco e insieme pieno di energie, perché ho capito, in parte, come distendere quel dito che mi addita, che mi dice che è tutta colpa mia se sono stanco.
stasera, andando via dal lavoro, vorrei non dover passare per casa, ma cercare un rifugio diverso. e invece no, so che se vado a casa e mi metto a leggere e scrivere tutto andrà meglio. fino alla ciambella di domattina. si ricomincerà.
per ricominciare ancora ci vuole una consegna, un piccolo rituale. ci vuole qualcuno che mi legga e sappia dirmi cosa ho sbagliato, e cosa ho fatto bene. a me fanno troppo male gli occhi, secchi anche loro per il fatto di guardare sempre vicino, e per le lacrime.
ma pensa che strazio, se non ci fosse il pianto.
qualcuno che non vedo da un po' mi ha dedicato per puro caso una poesia. una poesia fatta frasi quotidiane.
quoi qu'il en soit (comunque vada)
je compte sur toi (confido)
pour qu'on se voit (che ci si veda)
dès ton arrivée (al tuo arrivo)
dans le coin (da queste parti)
je te souhaite une bonne soirée (ti auguro una buona serata)
et ne fais pas semblant de travailler (e non far finta di lavorare)
sabato 11 ottobre 2008

mi piace perché ti piace: se c'è un meccanismo che detesto nella diffusione della "cultura" ggiovanile e non - io che ormai non sono giovane e ggiovane non lo sono stato mai - è l'emulazione. come andare alle mostre d'arte. ci vado perché ci vai. mi fa un po' schifo, mi viene l'orticaria.
non ho problemi a dire che sono insensibile all'arte. non a quella contemporanea, non ai vasetti di pomodoro o alle videoinstallazioni o alla merda d'autore o.
mi fa cagare tutta l'arte, non mi interessa niente degli artisti.
c'è qualcosa di provocatorio in questo? io dico di no.
c'è della frustrazione in un atteggiamento simile? probabilmente sì, ma non è la frustrazione di non essere artista. è eventualmente la frustrazione candidamente dichiarata di non arriavare a capire l'arte. o non arrivare a interessarmene.
mi metti davanti un "bel" quadro? 'sti cazzi.
mi fai ascoltare beethoven, per citare il più scarso? complimenti, bravo
mi fai vedere un film di Dreyer? faccio un rutto
per non parlare di tutti quelli che sono arrivati dopo, quando la pittura non c'era già più, per intenderci.
che poi a me mi fa schifo proprio il feticismo che c'è intorno all'arte, il bisogono di riempirsi la bocca, la videoteca, la libreria, il mondo. leggere più libri io di te.
no, io voglio leggerne di meno, meno di tutti. nessuno.
non voglio fare nessuna pubblicità ad un atteggiamento simile, quello di rifiutarsi di capire l'arte.
anche perché se faccio pubblicità rischio di essere emulato, e non mi va proprio. voglio capirne di arte meno di tutti. il mio scopo nella vita è questo.
fa' un click sul mouse e torna il buio.
buonanotte.
giovedì 9 ottobre 2008
martedì 7 ottobre 2008
lunedì 6 ottobre 2008

domenica 5 ottobre 2008

sabato 4 ottobre 2008

un avventore casuale, senza sapere che il blog fosse il mio, mi ha detto in privato che questo è un posto pieno di intellettuali falliti. la cosa mi ha fatto sorridere perché è vera, tranne per il fatto che di intellettuale fallito qui ce n'è sostanzialmente uno, e sono io. ribadisco: lo dico con una buona dose di autoironia. mi offenderebbe il "fallito" se mi ritenessi davvero un intellettuale, ma non sono arrogante fino a tal punto.
piuttosto, in questi giorni il blog s'è inaridito, sembra quasi voglia sparire. dipende da molti fattori, non ultimo l'obbligo di scrivere. qui e altrove. o l'obbligo di far finta che non sia un fine settimana freddo e piovoso.
come può, la pioggia, spaventare me che ce l'ho dentro? sarà che tanta pioggia dentro inizia a darmi i reumatismi.
ricordo che con K, al liceo, si pensò di scrivere una pièce intitolata I dolori reumatici del vecchio Werther. il titolo fu una mia proposta (spesso la mia creatività s'è limitata ai titoli); K immaginò un atto unico in cui Werther e Lotte si ritrovano, vecchi, ad una festa, o qualcosa del genere, e finiscono per ballare insieme. evidentemente mi sfugge qualcosa.
fatto si è che se lo riscrivessi oggi, il dramma sarebbe pressappoco questo:
Werther, alla fine del romanzo di Goethe, si spara alla tempia. il tentativo di suicidio non riesce, e il nostro viene ricoverato in una clinica degna del suo rango. lentamente riacquista le proprie facoltà mentali; intuisce però che, incapace com'è di inserirsi nella società del suo tempo, gli conviene fingersi offeso. potrà così ricevere tutto ciò che gli abbisogna standosene comodamente rinchiuso e allettato, fino a che qualcosa non intervenga a smuovere nuovamente il suo animo nobile. ciò indubbiamente avviene allorché, trascorsi moltissimi anni, la vecchia Lotte gli si presenta in clinica e, pur non sapendo che il vecchio Werther è perfettamente in grado di intendere, prende a parlargli della propria vita; gli spiega tra mille lacrime che ha mancato di fargli visita prima d'allora per paura di non tollerare la sua vista in quelle condizioni. ma, ora che il suo sposo Albert è andato al creatore e neanche lei si sente tanto bene, ha deciso di rimediare, per crepare con la coscienza pulita, quando dio voglia.
di fronte a cotanta magnanimità, Werther si finge improvvisamente miracolato e chiede a Lotte di portarlo via con sé e di andare a vivere tutti insieme coi figli di lei. la donna (ma questo è poco importante) gli fa notare che i suoi figli son già tutti belli che emancipati e stanno sparsi ai quattro angoli del mondo. i due si trasferiscono in campagna ad ogni modo, avviandosi ad una vecchiaia noiosa e priva di ricordi. Werther, che col suo gesto avventato ha perso di fronte al lettore quel briciolo di dignità che gli restava, subisce nel finale financo le inattese conseguenze del barlume di verosimiglianza che lo scrittore ha deciso di concedersi: avendo, l'eroe, trascorso gran parte della sua vita a letto, la stazione eretta, oltre a risultargli francamente difficoltosa, gli arreca terribili dolori alla schiena.