mercoledì 6 settembre 2006


DO UT DES (Parte XII)
"E cosa ti fa pensare che sia successo davvero qualcosa?". Il Selvaggio non poteva essere più ostinato nel controbattere i discorsi del Dottore.
"Capisco che tu sia restio a raccontare. Ma ricorda che io posso aiutarti". Il Dottore insisteva quasi supplichevole.
"No, Doc. Lei non ha capito: io non voglio nè ho bisogno di alcun aiuto. E non sarà certo qualche giramento di testa a farmi cambiare idea".
"Il tuo non è un giramento di testa. E' patologico. Sono effetti ben precisi di una causa altrettanto precisa. E io potrei aiutarti a risolvere il problema".
Il Selvaggio alzò la voce, spazientito: "Il mio non è un problema. Io non ho nessun problema. E nessuno si è mai offerto di aiutarmi in passato e chi lo ha fatto, non mi ha certo aiutato". Dicendo questo sui suoi occhi era piombato un velo di tristezza, di profonda e malinconica tristezza.
Nel frattempo l'Oste, che era rimasto a pulire il bancone in qualità di ascoltatore non invitato, dovette fare del proprio meglio per calmare un paio di clienti abituali che dal fondo del locale, infastiditi dal sentire urlare, si stavano alzando per sistemare la situazione anche con le brutte, se era necessario.
Il Dottore si sentiva come davanti ad un muro. Incapace di abbatterlo, incapace di scavalcarlo, incapace di girarci attorno. "Senti ragazzo, non mi interessa il tuo passato. Non mi interessi tu. Io ti dò una mano solo perchè tu la puoi dare a me. Do ut des. Niente di più. Niente di meno. Non ti dà fastidio sentirti manipolato? Usato? Ricattato, quasi? Ebbene, almeno io posso regalarti sufficiente consapevolezza della tua situazione per farne ciò che vuoi in maniera cosciente e non selvaggia come adesso".
"La mia situazione è chiara. Sono appena uscito dalla prigione. E sembra che tutti siano contro di me o vogliano qualcosa da me. E questo non mi sta bene".
"Questo è quello che credi tu. I guai te li cerchi da solo, come con il marinaio di Barbablù. Me lo hanno raccontato. Comunque io cerco una persona collaborativa. Se non collabori peggio per entrambi. Ma non credere che l'Oste tenga la stanza al piano di sopra occupata per te senza motivo. Per adesso gliel'ho chiesto io. Quando mi ha chiamato che eri svenuto. La stanza almeno quella ti serve finchè non trovi un altro posto, non conosci nessuno, sei appena uscito, e io e l'Oste siamo le due uniche persone che hanno cercato di parlare con te. Riflettici su questo".
Il Selvaggio non sapeva cosa rispondere. Aveva seguito tutto il ragionamento, non perchè lo interessasse, ma solo perchè voleva poi controbattere ulteriormente le parole dell'eburneo interlocutore. Ma piano piano che ascoltava, a malincuore fu costretto ad ammettere a se stesso che in fin dei conti il Dottore aveva ragione. Non gli importava che fosse sincero o no per quello che riguardava il resto, ma se non gli dava retta si sarebbe potuto trovare in mezzo ad una strada. O peggio ancora, sarebbe potuto finire nuovamente dentro Eltersdorf, e questa era di gran lunga la cosa che gli impediva di rispondere con il "no" decisivo, quello che avrebbe chiuso la conversazione definitivamente. Di contro, c'era sull'altro piatto della bilancia una cosa non meno pesante: il suo orgoglio. Già scalfito, già intaccato in più di un'occasione, temeva che se avesse ceduto adesso sarebbe sprofondato irrimediabilmente. Ma il carcere almeno una cosa gliel'aveva insegnata, bilanciare il suo istinto con una forte razionalità analitica. Il Selvaggio si sentì davanti a un bivio. Intraprendere la via più buia significava dimenticare il passato, ma avere un futuro altrettanto incerto. Intraprendere l'altra via significava fare luce sul proprio passato e con la stessa fiaccola illuminare il proprio avvenire. Era ad un bivio, in giacca e cravatta, elegante per una decisione importante; era ad un bivio, con la ventiquattrore stracolma di documenti e archivi; era ad un bivio con una bombetta in mano, pronto a salutare cordialmente una delle due strade del proprio destino. Alla fine decise che stava esagerando, stava dando troppa importanza a quel momento, che non poteva essere così fatidico; ignorò il peso dei rispettivi piatti della bilancia e scelse ancora una volta una via di mezzo.
"Do ut des, Dottore?"."Do ut des". Il volto del dottore si illuminò. Sapeva quanto il Selvaggio fosse combattuto e quanto gli costasse quella domanda. Una domanda che non era un "si" ma non era neanche un "no", e per adesso era un risultato più che discreto.
"E allora facciamo a modo mio, Doc. Do ut des. L'ho visto quel film, quando stavo dentro...ma non mi sono mai immedesimato nel serial killer con la museruola, nè lei ha le tette di quell'agente del FBI, d'altronde...Do ut des, ma inizi lei. Per adesso sto al suo gioco. mi riservo il diritto di rifletterci e mandarla a quel paese. Adesso dimmi, Doc...a cosa sono dovute quelle visioni?"
Il Dottore, se non fosse stato un gesto mal interpretabile, si sarebbe sfregato le mani. Sfilò dal pacchetto una sigaretta, un'altra la porse al Selvaggio. Quindi fece brillare davanti ai suoi occhi la fiamma dell'accendino. E ancora con la sigaretta in bocca, senza curarsi di soffocare il proprio rinnovato vigore, la propria eccessiva emozione, vittoriosamente quanto teatralmente affermò: "Preparati ad essere investito dal fuoco sacro della conoscenza!".

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