lunedì 21 maggio 2007


Fuoriesco da casa Grohmann, di testa, aggrappato al bordo con due mani, come si farebbe capolino da una botola, in certi film d'avventura. Mi guardo attorno, mi rigiro sul posto, annaspo. Per anni ho creduto questo: ai miei occhi miopi serve del tempo, al mattino, per mettere a fuoco il mondo. E invece, capisco ora, il tempo serve ai miei occhi miopi per ingannarmi che tutto è a fuoco come si deve. Ciò che non è vero.
E poi comincio a camminare, mi porta a spasso un fluido magico, perché dentro ogni uomo c'è un progetto segreto che nessuno conosce ma che ciascuno, senza conoscere, esegue. Sfoglio un paio di libri d'arte alle Halles St. Pierre: art brut, art outsider, pesci abissali: cose la cui esistenza o meno non cambia la vita a nessuno.
Penso di scalinare fin su Montmartre. Ci ripenso appigliandomi al terrore di vedere la città in mezzo giro di testa. E non arrivo a sapere se il terrore è l'alibi della pigrizia o se la pigrizia è l'alibi del terrore che sono già sul Boulevard de Barbès, e il contorno umano è passato dall'etnia bianco-turistica a quella olivastro-venditrice-di-orologi-rubati.
La metro mi inghiotte. La metro mi rutta a Belleville, di lì rimonto il quartiere in salita, senza pigrizia, tra i ristoranti cinesi, gli empori cinesi, i cinesi. Non ricordavo, non sapevo, che Belleville fosse bella al di là del nome. E' bello tutto il diciannovesimo arrotondamento; i municipi di Parigi sono numerati così, a chiocciola, a spirale. Arrivo a Télégraphe, e sono un pellegrino, prego e dopo siedo sulle scale, spalle all'altare. E poi, diritto di fronte, vado alla fermata del PC3. E' un bus pieno zeppo di neri africani, sempre. Percorre le mura di Parigi di porta in porta. Mi porta a porte de Clignancourt, per un'ennesima - perché non ultima? - volta. Scendo e c'è il mercato, lo attraverso, resisto al richiamo della galette del bretone, mi immergo nella città di St. Ouen, laddove non è più un fatto di arrotondamenti, è un fatto di 93, neuf trois, novetré, è un fatto di Banlieue. Di fronte alla mairie c'è una protesta pacifica, non so, forse un matrimonio, insomma c'è gente che suona tamburi africani e clacson.
St. Ouen era la mia città. Credevo di conoscerla abbastanza bene, non meglio di quanto non meritasse. Dalla mairie decido di imboccare una strada secondaria, mai battuta, e così via ad istinto.
Qualche chilometro e - complice il fluido magico - perdo il senno e trovo la Senna. La costeggio per un tratto, poi la ricerca di un qualsiasi centro abitato mi smarrisce lungo una lingua d'asfalto che separa appezzamenti brulli, coltivati a capannoni industriali. Presso uno di essi ecco quattro tipi in cerchio con le facce da operai magiari in pausa briscola. Pochi passi più tardi il graduale svelamento prospettico mi impone un campo nomadi; un intenso brulicare di vite giustifica tardivamente il chiasso di voci e battimenti che non sapevo di stare sentendo già da qualche decina di metri. Non riesco a trattenere un sussulto e un irrigidimento del collo, ma nessuno mi fa caso. Le prossime case sottostanno alla giurisdizione di Clichy la Garenne, e seguendo le indicazioni mi immetto sul Boulevard Victor Hugo (1802-1885). Il resto è discesa libera fino alla bElle éPoque.

Nessun commento: