martedì 14 novembre 2006

I primi passi falsi di uno scrittore con un grande passato davanti

Io quell’inverno a Roma non c’ero.
C’era senz’altro Noruega, con quei due spilli d’occhio sopra gli zigomi zagomi e un corpo tutto guglie, a sberleffo d’un’intelligenza abbastanza piana.
C’era, e non poteva mancare, la Coltellinaia, bella ma però mica bellissima, troppo fumettistica nel mento allungato sulla personcina scattante, e nel bianco dei denti allegri e un tantino ribelli, occupata, quando non pensava a me, a scorrere alla svelta con le sue pupille di liquirizia infelice riviste fragranti di stampa e di essenza di garbate abitazioni col giardino e senza, e normalmente coi parati arancio, à la mode de chez nous; ed era, costei, in compagnia bella ancorché meno bella di lei: Clelia e Clelia, ad esempio, eccezionalmente ordinarie, capivi che andavano in coppia almeno per il gusto di far credere che il loro nome non fosse poi raro, oltre che speranzose che le loro ordinarietà potessero in qualche modo vicendevolmente annullarsi; oppure il Topodifogna, un ragazzetto del Nord che non si sapeva cosa ci facesse dalle nostre parti, detto colì evidentemente per la faccia a punta, i baffetti molli e la passione per il nuoto lacustre, specie di tardo inverno e di prima mattina; e poi Vera, già Angela, donna falsa per almeno quattro ordini di ragioni: 1 – era falsa e basta, 2 - rinnegava il proprio nome di battesimo, 3 – nome che, essendo lei certamente cattivella, le si addiceva già poco e niente, e 4 - gli preferiva, impunita!, il nome Vera. Manco straordinario, peraltro.
C’erano, infine, Francesco e Maria, rinchiusi in una storia amorosa e in una geografia sessuale decisamente scolastiche, sebbene andassero oramai tutt’e due per i trent’anni, suppergiù.
E io, allora? E io no, a me non andava di starci, visto come s’erano messe le cose da quando Parlagrieco aveva preso ad alzare la cresta, la voce e il gomito. Ad alzare i prezzi invece ci aveva pensato Corrado, che noi chiamavamo Allagrande per quel suo modo istrionesco di ammiccare e cedere a certi sorrisi sbracati, non meno spontanei che irritanti, non più spontanei che circostanziati; dodicimila panino e birra iniziava ad essere una rapina, ma ogni sera transitava tanta di quella gente avanti e indietro per l’Absurd a dargli una buona ragione!
Nel periodo appena antecedente la mia rotta ineluttabile – l’autunno era già pericolosamente in finestra - a Parlagriego le tasche gli tintinnavano abbastanza forte mercé quell’insediamento mica male che aveva rimediato presso la redazione dello “Zyx”, non si capiva bene se per demerito o per calcinculo, e allora ogni notte all’Absurd e giù boccali a perdifiato, di solito a partire dall’una, quando i rotocalchi stavano già spalmando sulla velina le sue magnifiche trovate, e potevi avvistarlo ondeggiare tra un tavolo e l’altro, umettato e fatiscente come un’arcaica chiatta felice che si abbatte sugli scogli strapazzata dalle maree (l’equipaggio disperatissimo, ormai). Con me non parlava quasi più, né da lucido né quand’era in condizioni normali. A dire il vero io per primo non avevo di che conversare con lui (come con parecchi altri di quell’ambiente) e avevo poca voglia finanche di ascoltarlo in silenzio - malgrado mi fossi esercitato a tenere un’espressione interessata sul volto quando pensavo ai casi miei, cioè sempre; tutta colpa di quella sua accelerata inclinazione a schiamazzare motti lambiccati e solennemente vuoti, sempre reduce com’era da soirées o matinées più o meno parcamente trascorse giù nella polvere del giornale - bel posto però, la redazione – dove, rincantucciato nel bolero verde oliva, ingoiava di tanto in tanto una saliva tutta sua, densa di bravura e vanità, intento a stanare tra le carte della ribaltina la parola che squarciasse l’elzeviro, nello spazio breve e immortale che separava una sigaretta da uno scotch di marca o da un caffè automatico - a seconda, ma non sempre, degli orari di lavoro.
Fosco Parlagrieco non era, o almeno non era sempre stato, una brutta testa.
Il fatto è che l’estate prima, ai Bagni Esperia, le notti erano trascorse metà viscose e metà zuppe di vento e filtri di sigarette americane; e, vaffanculo, c’era stata pure una terza metà, fatta di ritorni a piedi col pianto in gola senza motivo apparente. Noruega mi aveva consolato senza chiedere nulla a baratto, tabacco a parte, ed io lo avevo investito incurante del mio pudore e della sua pazienza, e avevamo cercato insieme, spesso tagliando in linea retta l’afa sorda di quella parte di Ostia lontana dal mare, una soluzione condivisibile a certi malanni comici come l’amore e come gli ultimi quindici, vent’anni di storia del cinema italiano. Gli altri, Parlagrieco e alcuni annessi che non avranno peso nella storia, restavano a lungo a ciondolare sullo spiaggione chiassoso.

3 commenti:

Domhir Muñuti ha detto...

Per chi non lo sapesse questa fu la prima ed unica pagina di un mio tentato romanzo. Risale a più di un anno fa.

s(k) ha detto...

Ritenta.
Non so se sarai più fortunato, evita solo le lungaggini stilistiche.

Domhir Muñuti ha detto...

Sì, me ne rendo perfettamente conto.