mercoledì 6 settembre 2006

IL DOTTORE EBURNEO (Parte X)
Il Selvaggio non poteva sapere quanto tempo fosse passato. Quel maledetto orologio a muro si ostinava nell'affermare la sua costante bugia delle 7 e 03. Molti dicono che quando stai dentro impari a scandire le ore mentalmente, a riconoscere e contare i giorni, ma è tutta una balla: in realtà perdi la concezione del tempo e vivi in un limbo in cui l'alba ed il tramonto si ripetono senza uno schema fisso. Stava ancora una volta appoggiato al bancone del bar, aspettando con impazienza che la porta alle sue spalle si aprisse. Era stata una giornata di magra per il locale, non c'era stato l'andirivieni costante della giornata precedente alla partenza di Barbablù e della sua ciurma. L'Oste era stato tutt'altro che di buona compagnia, ma anche il non aver parlato - osservò il Selvaggio - poteva essere considerato una cosa tutto sommato positiva. La radio trasmetteva solo spezzoni di brani (tutti decisamente poco entusiasmanti) interrotti dal tipico ronzio fastidioso che si sente quando l'antenna prende male un segnale già di per sè confuso e instabile. Confuso e instabile...così si sentiva il Selvaggio. Come una radio rotta, inutile, una cianfrusaglia non buttata per pigrizia del suo proprietario. Confuso e instabile.
La porta si aprì in quel momento, facendo passare uno sbuffo d'aria gelida e pungente. "Incredibile come cambia il tempo in fretta" affermò una voce da dietro un impermeabile ben chiuso. Il Selvaggio era già infastidito: perchè parlare quando non si ha interlocutore? Perchè non risparmiare fiato? Perchè sedersi proprio accanto a lui? Perchè non lasciare in pace la gente come lui? "Vedo che ti sei ripreso alla grande dalla sbornia, roscio". Era il Dottore. Il Selvaggio si voltò lentamente per guardarlo in faccia. Candido di capelli e di carnagione, un lungo ciuffo ribelle sfuggito all'elastico della coda che tradiva un passato di scorribande adolescenziali e avventure più adulte, una espressione di chi è sicuro di sè, di chi vorrebbe poter ridere di tutto, di chi guarda gli altri dall'alto in basso. E non potè fare a meno di notare quella sua plasticità nei movimenti, quegli occhi socchiusi, quelle due fessure dalle quali partivano feroci stilettate. Sembrava anche più giovane dell'età che doveva avere; il volto, benchè scavato e magro, era troppo liscio e ben curato per un sessantenne: ne dimostrava una ventina di meno, forse addirittura venticinque. Miracolo di una alimentazione sana. E dei lifting.
"Non ero ubriaco. Dovresti saperlo se sei un dottore serio". Neanche il Selvaggio si poteva lamentare sotto l'aspetto fisico: in prigione aveva avuto modo e tempo di allenare non solo lo spirito. E poi i mulatti mantengono sempre una pelle più levigata e giovane.
L'Oste si intromise: "Lascialo perdere, Doc, è fatto così. Intrattabile".
"Eh già, mi avevi avvertito anche l'altra volta. Non deve essere facile uscire di galera e subito rapportarsi con il mondo". Il Selvaggio sembrò quasi ringhiare, ma non lo interruppe. "Ma è proprio per questo che sono qua. L'altra volta hai avuto delle visioni, parlavi anche nel sonno, vaneggiavi mentre ti rasavamo i capelli. Perchè non mi racconti quello che hai visto?".
"Perchè non te ne vai affanculo?". Rispose a denti stretti, come sibilano le serpi. "Cosa sei, uno psichiatra, uno psicologo?".
"No, nessuno dei due, non sono un fottutto strizzacervelli". Lo disse avvicinandosi, quasi a sfidare il Selvaggio sul suo stesso terreno, quello della volgarità. "Ma sono qui per aiutarti. So che cosa ti ha provocato quelle visioni". E afferrò la mano del Selvaggio, come in preda ad un furore sacrale.
Il suo interlocutore spostò la mano, notando quanto fosse lampante la differenza tra la propria bronzea pelle e quella eburnea del Dottore: "Bene, Doc, e allora dimmi prima di tutto, perchè mi vuoi aiutare?"
Il Dottore si rimise composto sul suo sgabello e smise di guardare il Selvaggio negli occhi, ma fissò il muro davanti a sè. "Perchè voglio che sia tu ad aiutarmi, poi". Non c'è che dire, il Dottore aveva il senso del colpo di scena.
"E in cosa potrei esserti utile, io? Un relitto? Un poco di buono? Un attaccabrighe?". Stavolta il Selvaggio era preso dalla sua solita morbosa irrefrenabile curiosità.
"Noto con piacere che hai un'alta considerazione di te". Sghignazzò il dottore. Quindi tornò serio in un lampo:"Mi devi svelare i segreti della prigione di Eltersdorf. E solo tu puoi aiutarmi. Tutti coloro che sono già usciti da quel posto non hanno potuto farlo. Ormai, anche se il mio viso non lo direbbe, sto invecchiando, e tanto tempo fa incontrai una persona che mi aprì gli occhi. Se fai il dottore non puoi pensare solo ai soldi, alla pensione, alle vacanze. Hai abbracciato un ideale.". Prese fiato, come si gli costasse rivelare ciò che ormai aveva iniziato a dire. "E lo hai abbracciato fino alla morte".
Era necessario un altro respiro profondo prima di continuare: "Ebbene, circolano da tanto tempo e in tanti posti voci strane sulla prigione di Eltersford. Voci terribili. E voglio scrivere un libro. Voglio riportare queste voci. Voglio sentire queste voci. Voglio render noto tutto ciò che succede al suo interno. Voglio sapere dall'inizio alla fine quello che ti hanno fatto". E indicando il petto del Selvaggio all'altezza dell'orgogliosa effige del penitenziario ripetè solennemente: "Voglio sapere quello che è successo".

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