martedì 22 agosto 2006


Quando ci entrava, oramai, era assalito da una pietosa desolazione; tanto più che era stato lui ad averlo reso così gelido, così insipido, così inospitale, quel luogo. Quel luogo era orfano di lui, soprattutto.
Non c'era un solo oggetto che gli appartenesse davvero, o che significasse per lui qualcosa in più del dovuto: i piatti in cucina erano piatti, non una sola crepa a ricordargli d'averli seppur malamente usati in qualche occasione; le sedie erano sedie, non un solo piolo consumato a sottolineare le sue scomposte abitudini di vita; la scrivania era una scrivania... o forse no. C'erano oggetti, come la scrivania, che col disuso avevano smesso persino di essere se stessi: la pipa era un soprammobile, come tutte le pipe, del resto. I dischi, poi, erano un'eredità di generazioni passate, dunque poco idonei a dargli notizie di se stesso.
Anche la scelta della carta da parati, che all'epoca gli era sembrata azzeccatissima, ora si rivelava poco in sintonia col suo stato d'animo. Eppure i colori erano rimasti gli stessi, il tempo trascorso non era bastato a sbiadirli, né a farli passare di moda. Poi, in altri tempi, quelle tinte gli erano parse significative in ogni condizione di luce: col sole alto, al crepuscolo, all'alba (per quel che ne sapesse), al piccolo lume della scrivania, addirittura sotto gli sconcertanti fari alogeni che aveva fatto installare nel salotto all'inizio dell'inverno, in preda a violente quanto effimere velleità di produttore cinematografico indipendente.
Cinematograficamente ipotizzò, senza convinzione, un finale alla Freddy Nasone: era giunto il momento di cambiare casa.

1 commento:

sgamas ha detto...

Almeno nella scrittura Freddy Nasone ama concedersi un pò di quell'impeto che fa difficoltà ad avere per le restanti ore della giornata..bel post il tuo, e finalmente una scrittura sincera..