domenica 31 agosto 2008


mi piace Tarantino, perché per far capire la serie non deve mostrarla; così il killer di Death Proof, è seriale ma lo è in un colpo solo, e al secondo colpo l'azione è già sventata, il killer è già fatto fuori, nel modo più immediato più stupido più prevedibile e, al contempo, più lento possibile. metà del film è un inseguimento; un inseguimento tra stuntmen, per giunta. anzi, fra uno stuntman e un gruppetto di stuntwomen spietate. 

è sufficiente mostrare due situazioni, l'una per certi versi speculare all'altra; è come un libro aperto alla metà: e da una parte c'è quello che serve a capire quel che c'è dall'altra parte. e il taglio è netto, e già questo taglio è sufficiente a rendere Death Proof un saggio sul cinema, arte del montaggio. ed è un saggio anche per il fatto di ripescare estetiche superate eppure indimenticate (anche se io di B-movie anni '70 non so niente); l'immagine sporca e ripassata, come la pasta del giorno dopo, è bella perché imita, perché plagia, simula il tempo trascorso, simula altre visioni, altri sguardi prima del nostro, altre critiche. e plagiando fa spiccare certi sapori e al contempo guasta qualcosa, si priva diciamo della possibilità di essere "classica"; in pratica è bruciacchiata, ma piace anche per questo.

e poi c'è una trovata fantastica, nella prima parte; c'è qualcosa che Aitor Ibanez (un giorno sentirete parlare di questo giovane catalano) mi fece notare anche in Volver, di Almodovar, una notte a Parigi: c'è l'effetto prima della causa. c'è la ragazza carina col naso acciaccato, quella con le gambe bellissime sciorinate sotto al temporale: e in queste immagini c'è il presagio della fine tremenda che faranno, in cui quei caratteri, quegli effetti -che sono anche "effetti" violentemente sensuali- diventano sensualmente violenti; c'è una terribile portata erotica nella morte delle giovani in Death Proof; c'è il parossismo di eros e thanatos. non c'è niente da fare, è così. c'è un compiacimento sadico, ma proprio sadico, di fronte al macello, alla carneficina. e non è più nemmeno finzione pulp, non c'è il comico a mezza bocca o la violenza secca che troviamo in altri film del nostro. c'è una grande serietà. l'istante della fine (del primo tempo) è mostrata due, tre, quattro volte da angolazioni diverse; il regista non vuole rinunciare ai dettagli, non si fa e non ci fa mancare niente. ci fa, anzi, affezionare a certi dettagli erotici, fino a che non li trasforma di colpo in dettagli orrorici.

e poi, dicevamo, le stuntwomen: il secondo episodio. anche qui c'è il saggio; un film sul cinema, d'accordo: ma tutti i film lo sono. e non è un film sugli stuntmen, o lo è di sfuggita, di cilecca; lo è per la quantità di mito e morbo che il ruolo di stuntman ispira, in un mondo, come il nostro e come quello di tarantino, in cui lo spettacolare, il cinematografico per eccellenza, sono prodotti oramai numericamente, con il computer. lo dice anche Kurt Russel nel film, che di imbecilli disposti a farsi male per realizzare la scena di un inseguimento non ce ne sono più tanti. anche qui, in questo film, c'è l'ausilio del mezzo elettronico, ma ciò non fa che aumentare la validità sempre ironica, sempre "comica" del saggio, che ha e deve avere un valore artistico assoluto. in questo caso ce l'ha.

il bello della seconda parte è che potrebbe essere identica alla prima e non lo è. potrebbe ripartire dalla prima e non lo fa. parte un po' per conto suo. parte dopo un taglio netto. altro stato, altre ragazze. stesso killer, intravisto fuori fuoco sullo sfondo di una tranquilla conversazione tra le simpatiche protagoniste. la fotografia non è più disturbata, riscaldata: qualche minuto di bianconero, poi di colpo il colore: ed è caramelloso, patinato come le riviste che impazzano tra le mani delle giovani donne-di-cinema/protagoniste. poi il colore si fa naturalistico; ma in effetti non cambia mai, è coerente. ciò che cambia, tra il prima e il dopo dell'episodio, è il luogo dell'azione; dall'autogrill alla strada pura e semplice, dal caramelloso al verismo.
in questo secondo episodio il gioco è subito rotto, l'azione del killer è sventata. la cosa bella è che per "fare" il film, per compiere la missione (subendola) le tre protagoniste lasciano "a casa" la quarta amica, colei che interpreta il ruolo dell'"attrice"; ed è -così- depredata, comicamente, di una vera parte. proprio lei.
Death Proof, si chiama il film: a prova di morte; il titolo si riferisce alla macchina. l'automobile a prova di morte, un'arma potentissima. e infatti il cattivo, dopo l'incidente finale, superstite, lo fanno fuori... fuori della macchina, a calci e pugni. cose buffe.
è buffo, quale che sia il messaggio. il messaggio è il mezzo, disse il tale.
a mio avviso questo saggio sul cinema, questo film bellissimo che è Death Proof di Quentin Tarantino, è un film... bellissimo.

venerdì 29 agosto 2008


la bell'alba degli dei dal tamburo.
in cucina mi attende il secondo caffè, dopodiché giù nell'umido del bunker. non penso di aver mai toccato la mia batteria prima delle 9 di mattina. chissà l'effetto sul timpano vergine.
vado che è già tardi.
lo sconsiglio di oggi è: eliminare gli aggettivi.
au revoir.

(nella foto: la batteria di higuerra al vittoria beach)

giovedì 28 agosto 2008

mi viene il sospetto che il mio problema siano le parole, e lo siano sempre state. cioè, che il mio groviglio sia tutto un fatto di afasia. si direbbe che l'afasia sia piuttosto un sintomo che una causa?
non è detto; non ricordo chi sosteneva l'identità di linguaggio e pensiero. ma qualcuno la sosteneva, e io la sosterrei con lui. e quando due termini sono identici non sono tra loro legati -credo- da alcun rapporto di causa ed effetto. non è così?
il problema è non riuscire ad esprimersi, a trovare le parole adatte. salvo rari casi.
quando leggo i post degli altri, ad esempio, ho la sensazione che sapessero esattamente cosa dire prima di mettersi a scrivere. io non lo so mai, io parto e vado. e se questo metodo funziona in un post, nella vita no, non funziona.
è vero che ho sostenuto circa 40 esami universitari nella mia vita; ma è anche vero che ci ho messo 800 anni a sostenerli.
parlare, scrivere, trovare le parole, riempire gli spazi, comunicare, comprare il pane, chiamare qualcuno per nome o per l'appellativo adeguato (papà, mamma, zio, nonna) per me è sempre stato faticosissimo, impossibile. cerco e trovo sempre nomi alternativi per le persone che mi  circondano, e taluni (nomi) attecchiscono talmente bene sui destinatari da farne dimenticare -o quasi- il nome di battesimo al pubblico e a loro medesimi.
non so parlare, non so scrivere. sono incartato, non riesco ad esprimermi. e, quel che è peggio, tra due mesi scarsi ho l'ennesima scadenza per la consegna del malloppone-tesi.
devo salvarmi da cotanto melodramma, cambiare il corso di una storia ridicola che mi condanna alla condizione di laureando a tempo indeterminato. U. Eco, nel suo celebre libro "come minchia si fa una cazzo di tesi di laurea di merda" dice che la mia sindrome è diffusa, e che si tratta di un alibi per tante viltà.
non so cosa passa per la testa al mio inconscio, ma io giuro dinanzi a questa corte, poggiando il palmo della mano destra non già sulla bibbia ma sul dvd di carmelo bene che ho qui sulla scrivania, giuro, dicevo, che non ho paura del dopo e che invero non ne posso proprio più di questa situazione che oserei definire "noiosa".
contribuite alla causa con qualche insulto, please.

sabato 23 agosto 2008

Opere ibride di teatro e cinema attendono meet- up creativo tra ideatori finalizzato a ciò che tu ben sai...

... Quando vuoi, ripeto: quando vuoi!

Pace e bbuono.

venerdì 22 agosto 2008

sarà l'ottimismo a suggerirmi certe cose. ma come sempre, in ogni suggerimento io vedo il suggerimento di un suggerimento, così come in ogni cosa vedo un duplice rimando, un qualcosa di spiroide, una doppia mandata, un'eco di quella cosa.
e quindi nell'ottimismo, sono ottimista. e mi suggerisco la cosa seguente: cioè che: se ho perso tanto e tanto prezioso tempo a non far nulla di interessante nel corso della mia sinora breve vita, c'è un motivo; e il motivo in quanto motivo è una ragione, per un fatto di sinonimia. e la ragione in quanto ragione è una giustificazione, per un fatto semantico, laddove ragione oltre che motivo è anche ratio. e oso che ratio sia giustizia. e la ragione del non far nulla è nella fede dell'estemporaneo. l'ottimismo, oggi che sono ottimista, mi suggerisce che, essendomi io mostrato a me medesimo -in vari frangenti della mia sinora breve vita- in grado di gesta estemporanee ed efficaci, sono capace, anche per i giorni a venire, di gesta estemporanee ed efficaci.
ci ho pensato oggi mentre scrivevo pagine stracce di questo libro un po' inutile, ma bellissimo, che sto scrivendo.
ad un certo punto ho preso a versare giù inchiostro virtuale sulla pagina bianca, e mi son ritrovato a dire (ancora non me lo spiego) cose persino sensate intorno ad un argomento -quello appunto del mio nuovo libro- che, per interessante che sia, divulgandosi non modifica in modo sensibile l'andamento delle cose su questo pianeta (e questa insufficienza, per una bestia ibrida come me, è una cosa non dico grave, ma gravissima sicuramente sì).

Così parlo di me nel mio ultimo libro:

La propensione, la ricerca volta al funzionamento del testo, lo spinge ad agire dall’interno. Il testo, di conseguenza, in lui non agisce secondo un andamento organizzato dei materiali, non è volto ad una espletazione crono-logica delle proprie funzioni. La funzione è individuata ed elaborata, nel nostro autore, per quelli che sono i suoi aspetti, diremmo, sincronici. Ciò è ravvisabile non soltanto nello scardinamento della diacronia,  della marco-sintassi filmica, del climax, in una parola: della narrazione. La sincronia è anche nel trascurare, camuffare, sfigurare, denigrare la forma dialogica e con essa ogni elemento di contiguità, a favore di un approccio, di una necessità, di una modalità rappresentativa fortemente “simultanea”. Lo svisceramento del nucleo del testo ha a che fare con quello che molti critici, a partire da D., definiscono l'amputazione degli elementi di potere, che al nostro autore occorre nella sua maniera di mettere in scena i drammi elisabettiani.  Il dialogo stabilisce inevitabilmente una gerarchia, quindi va soppresso.

Agire dall’interno, rompere il gioco narrativo e interpretativo per svelarne il senso “fermo”, per mostrarne il motore; sospendere il tragico, come scrive un suo contemporaneo: «Una azione fermata nell’atto abortito è quanto m’è piaciuto definire sospensione del tragico. È così che, grazie all’interferenza di un accidentaccio, la surgelata lama del comico si torce lancinante nella piaga inventata tra e pieghe risibili-velate della rappresentazione del teatro senza spettacolo. Annientamento erotico.»

Mostrare sostanzialmente il divenire del testo, così come C. alludeva a trasformazioni, per così dire, bidirezionali. Il nostro autore addita, una volta estirpato il nucleo e soppressi gli elementi di potere, la possibilità di procedere in una direzione qualsiasi, pretestuosa o arbitraria. Ma poi non procede proprio affinché l’atto resti in potenza, o procede in modalità minore.

L’ipotesi è che lo faccia per avere a disposizione non un testo da interpretare, citare, recitare, variare, dissacrare, distruggere: ma per avere un luogo, una chora, un ricettacolo, una partitura aperta o una cavità in cui far risuonare la phonè, in cui muoversi ed esprimersi senza vincoli, senza inibizioni, senza tabù. 

(Luca Gaigher, Lupus in fieri, autoedizione 2008)

domenica 17 agosto 2008

il professore non fu un assistente.
di professore vero si trattò.
niente più esami, niente più niente,
più niente più.
niente più niente uguale trenta, sto.
pochi residui (per ora) di quel dì che fu.

un dì, dico bene, dico, un dì, un giorno solo, un solo giorno è trascorso dall'inizio, che portò, nell'aula uno, piazza della repubblica, roma, italia, ad un passo e dico uno da via parigi, portò, dicevo, il nome, per curioso appunto, di parigi. così si chiamava la prof del mio primo esame. e così si chiama la prof della mia tesi. e si tratta della medesima prof.
ma dai?
parigi, parigi, che piove.

e quindi ora che quel giorno, uno, è trascorso, Bene!, possiamo dedicarci a scoprire, capire, abitare, vivere, pensare, agire il nuovo giorno e trovarne, come fosse una porta, trovarne, dicevo, la chiave, come fosse una porta -che porta!- che porta al domani, che è un giorno nuovo ancora. e fuori di sofisma direi che in fin dei conti sono stanco di quelli che dicono che il tempo non esiste e che l'hanno inventato i cazzo di uomini per sistemare certi guai, perché invece il tempo esiste quanto è vero che siamo uomini, e se il cane il tempo non lo capisce perché è cane, affari suoi, noi uomini il tempo lo capiamo. argo riconosce ulisse, mi ha suggerito bak, riconosce ulisse, dicevo, perché per lui, per argo, il tempo non esiste, è cane lui, e il cane la cognizione del tempo non l'ha, il cane, argo. ergo: il genio del poeta, soprattutto laddove un poeta non è un uomo, ma un mito egli stesso, un turbine, una confluenza di idee, l'opinione pubblica, uno stato di necessità, uno stato di cose, uno stato di diritto, una repubblica democratica, non un uomo, quindi, ma tutt'al più una donna. e forse nemmeno greca.

grecia più parigi uguale adel.
la birra greca la vende, tra gli altri, adel. che se non ho capito male è portoghese. tra gli altri, lui la vende. ma io gli altri non li conosco, io conosco adel. e vado da adel. che fa rima con grange aux belles, anche se dalla grafia non si direbbe, grange aux belles, che è la via dove il bar di adel si trova.
niente rima per gli occhi: ecco il fascino del francese: una lingua estremamente sintetica, io trovo, quando si esprime sul metro o al mercato. una lingua ricca -nelle sue formule gergali più en vogue, almeno nella capitale- di abbreviazioni a volte eccessivamente vezzeggiative:

macdo (nald's)
resto-u (ristorante universitario)
fac (abbreviazione di facoltà nonché sineddoche di università)
science po (scienze politiche)
p.q., ovvero pécu (papier cul, carta culo, volgarmente detta carta igienica)
metro
grec (sandwich grec, ovverosia panino con gyros)
gars (garçons, ragazzi)
manif (manifestazione)
tante altre che al momento non ricordo

e una lingua che secondo me abbrevia perché soffre dei suoni scontrosi e reclamistici che ha, e della grafia prolissa e mnemonica, piena di esse non dette ma pensate, e di altre consonanti e vocali che subiscono la stessa fantasmagorica sorte. non detti che si accumulano e generano, giù nell'inconscio della lingua francese, tutta una serie di patologie:

baudelaire
zidane
sarkozy
rimbaud
il surrealismo
mallarmé
napoleone bonaparte
corbière
villiers de l'isle-adam
verlaine
carla bruni
monica bellucci
moët et chandon
p à p
la banlieue
le neuf-trois

fine primo tempio