sabato 30 settembre 2006



L'incredibile storia di Piòtr Proletariovic e del funzionario


Una volta insomma dovevo andare da solo in vacanza a Parigi, una settimana neanche. Biglietto: fatto. Documenti: fatto. Valigie: fatto. Prenotazione albergo: fatto. Panino parma e parmigiano: fatto. E insomma parto, vado. A Ciampino prendo pelo pelo l'ultimo aereo, alle 23.30, e mi metto a sedere sul lato oblò. La fermata dopo, sarà stata Firenze, un tipo mi si siede accanto e mi fa:
"Buonanotte. Lei dove scende, dove va?"
Dico "Io a Parigi, Parigi centro centro"
Dice "Ah, che casualità, anche io"
E finisce che ci mettiamo a chiacchierare, gli dico della mia vacanza e scopro che lui è un'agente dei servizi segreti che deve andare ad assassinare un funzionario. Dice che è russo, non il funzionario, ma proprio lui, l'assassino. Il funzionario invece è francese. Gli chiedo, ma insomma, si spieghi meglio, che vuol dire "un funzionario?"
Mi fa, dice: "Guardi, abbia pazienza, adesso non le posso dire di più, ma domani, dopodomani al massimo si compri Le Monde, che se tutto va bene in prima pagina il nome del funzionario ce lo trova. Ah, mi presento, Piòtr Proletariovic, assassino."
Gli faccio "Beluga Higuerra, visionario."
Mi fa, dice "Di solito noi agenti segreti non diamo certe informazioni al primo che capita, ma lei mi sembra una persona proprio affidabile, e poi sa, lo faccio per scaramanzia; che se il mio nome lei lo venisse a sapere da Le Monde domattina, allora significa che qualcosa è andato storto."
"Capisco, eccome se la capisco", gli fo. Poi mi metto a mangiare il mio panino, gliene offro un po'.
"No, grazie," mi ringrazia, "non riesco mai a mangiare prima di un assassinio, ma domani, dopodomani al massimo non ha idea di che mangiata mi faccio. Se vuole, la invito anche a lei, ci vediamo o domani, o dopodomani all'ora di pranzo al Temps Perdu, offro io. Lei si regoli con il giornale, per sapere se deve venire o no."
"Volentieri. Scusi, sa, ma adesso mi metto a dormire," gli dico io, "che il viaggio è ancora lungo"
"Prego," mi prega, "e se non ci rivediamo, buona vacanza."
"E buon assassinio" gli auguro io.
E di fatti un istante dopo mi sveglia una hostess e mi fa, dice "Signore, siamo arrivati a Parigi centro, non è che per caso lei scende qui? Glielo chiedo perché, sa, sono scesi praticamente tutti."
Dico "Sì sì", e scendo di corsa. Dell'agente segreto manco l'ombra.

La mattina dopo mi sveglio nel letto dell'albergo e mi guardo attorno come quando ti svegli in un posto e non ti ricordi dove sei. Poi dico "sì sì, adesso mi ricordo. Sono in albergo. A Parigi."

In quel momento bussano alla porta, vado ad aprire e mi si presenta un ragazzotto vestito di Salvatore Ferragamo che mi dice qualcosa che mi sfugge. Mi dà un vassoio con un paio di fette biscottate, due ciotoline di marmellata, una gusto albicocca e l'altra frutti rossi, un panetto di burro, un cruassà, un caffelatte, un succo d'arancia, un tozzo di pane, tre fette di salame e un cetriolino sottaceto.

Poi mi dà anche il giornale. Però è Le Figaro. E di fatti lo sfoglio attentamente, dalla prima all'ultima pagina e niente assassinio, niente Piòtr Proletariovic; ci sono tanti funzionari, tutti vivi, ognuno con la faccia di quello che un giorno o l'altro lo ammazzano, ciascuno a modo suo, però ancora tutti vivi. Corro in edicola, prendo Le Monde, e niente neanche lì, più o meno come Le Figaro, ma con meno foto di funzionari. Dico, vabbè, me l'aveva detto, domani dopodomani al massimo.

Intanto mi faccio i miei giri, Torre Eiffel, Notre Dame, Sacré Coeur, Quartier Latin. Le ore passano. Scende la sera e mi dico, ora non vado a dormire finché non esce Le Monde; così poi vado a dormire più tranquillo. Alle 2 di notte o quasi, passeggiando per un Bulevàr incrocio un indiano che vende i giornali. Gli faccio "Le Monde" e pago. In prima c'è scritto "Assassinato il funzionario Jean Marougon". E c'è pure la foto del funzionario. Bene bene, mi dico, Piòtr ce l'ha fatta e domani mi paga il pranzo.

L'indomani, verso mezzogiorno e mezzo - che mi hanno insegnato che pare brutto presentarsi all'ultimo momento se ti invitano a pranzo - vado al Temps Perdu. E ti incontro Piòtr Proletariovic e Jean Marougon seduti allo stesso tavolo, che fumano sigari e dicono qualcosa uno per volta e poi ridono insieme. Piòtr mi vede e mi fa "Buongiorno caro Higuerra, la stavamo aspettando; le presento il mio vecchio amico, il funzionario Jean Marougon, che ho assassinato ieri sera verso le 7 e mezza."

"Salute," mi dice la vittima. "Salute" faccio io, "come si sente?"

"Bene," mi fa, "è sempre un piacere farsi assassinare da professionisti come Piòtr Proletariovic."

E Piòtr prende la parola e mi dice: "Adesso mangiamo con calma; poi lei se ne torna in Italia e appena arriva scriva questa storia assurda che le è capitata e aspetti che qualcuno le spieghi che cazzo significa."


W. I. P. (WORK IN PROGRESS)

Talvota abbiamo bisogno di piccoli gesti, altre volte di grandi orizzonti. Talvolta ci basta un fischio per richiamare la nostra attenzione, altre volte aspettiamo che di notte il bat-segnale squarci il velo di Maya delle tenebre. Talvolta cerchiamo noi l'attenzione di altri, altre volte l'aspettiamo. Talvolta non ci interessa fare nessuna delle cose. Talvolta basta il silenzio, altre volte serve un commento. Talvolta rispondiamo con un semplice si, altre volte con lunghe frasi di giochi di parole. Talvolta quello che facciamo ci piace, altre volte meno. Talvolta sottovalutiamo, altre volte sopravvalutiamo. Talvolta beviamo e poi vomitiamo, altre volte sorseggiamo e poi gustiamo. Talvolta non ci servono immagini, altre volte abbiamo bisogno di incollarle in un post. Talvolta abbiamo bisogno di pensare e ricordare, altre volte ci basta una foto. Talvolta abbiamo bisogno di leggere, altre volte, come in questo caso, abbiamo più bisogno di scrivere. Come sicuramente avrà detto almeno una volta nella sua vita quel relativista di Albert Einstein: lavori in corso.

(AAVV, dal saggio La Realizzazione Di "O La Nave O Un Altro Animale", dal capitolo O Il Lungo Intermezzo O Il Lungo Intervallo: In Ogni Caso Pausa Di Silenzio; immagine tratta da un cartello autostradale alle porte di Bagdad, recante in basso la scritta Lavori In Corso Per Un Nuovo Vecchio Corso, riportata nel libro fotografico a pop-up Da Hollywood Alle Favelas: Dai V.I.P. al W.I.P.)

venerdì 29 settembre 2006


Cafè absurd mette in palio un biglietto per Lourdes (fa pure rima). Pubblicate i vostri post sul blog entro la mezzanotte di domani, anche sotto forma di comment. Il fantastico premio andrà al più trishte. [nella foto il presidente della giuria di qualità]

IL PASSO IN AVANTI

Talvolta di notte mi fermo sull'orlo del baratro e guardo l'abisso. Lo osservo. Prima mi raggiunge la gioia dell'oscurità che mi circonda con il suo tepore, quindi mi assale lo sconforto del vuoto. Poi, come dico spesso, mi rendo conto che confido troppo nella vista. Allora ascolto. Se si chiudono gli occhi ci si può concentrare meglio sui suoni. Non sento nulla. In compesno mi accorgo di una brezza gelida che si solleva, mi accarezza, quasi a sussurrare sulla mia pelle dolci sinfonie. Prendo quello che ho in tasca. E' una lacrima, la conservavo con gelosia e vergogna nello stesso tempo. La getto con dolcezza nell'abisso, senza rimpianti: non ho problemi a liberarmene e sono stupito del fatto che mi sia tornata utile. Aspetto un suono. So che l'abisso ha un fondo e quando la lacrima lo toccherà, ne sentirò il suono. Lo spero e tanto mi basta per saperlo con certezza. Non mi sbaglio, non ho bisogno di farmi coraggio perchè non mi sbaglio. Non mi sbaglio eppure il suono non arriva. Per quanto lo aspetti non arriverà. E so anche perchè. Il mio udito, per quanto mi sforzi, non arriva a percepire un suono così lontano. La speranza lo percepisce, l'udito muore prima, tutto muore prima della speranza. Questa la lezione: la vita non è bella e costellata di situazioni infelici, la vita è infelice e costellata di situazioni piacevoli e di conseguenza ingannevoli; le mie speranze rimarranno, io morirò prima, tutto muore prima della speranza. E non trovo alcun senso. Per cercare il senso riapro gli occhi ed è nuovamente giorno, nella naturale routine della vita morente. Mi guardo intorno e vedo che sono sì sull'orlo del baratro, ma solo perchè sono in cima ad una torre. La presuzione umana! L'illusione umana! Quando credo di essere sprofondato sono ancora in alto, per questo cerco di scendere al livello dell'umiltà. E quando le mie fatiche verranno premiate raggiungerò quello che avevo gettato, ma non potrò raccoglierlo: è passato troppo tempo, ormai è troppo tardi. La lacrima si è distesa sul fondo senza che avessi potuto udire alcun suono: pensavo di dominarla, avendola in tasca, tenendola nel pugno, invece si è vendicata. Capisco che le mie convinzioni sono sbagliate, ed è sempre troppo tardi. Le mie speranze rimarrano, io morirò prima, tutto muore prima della speranza, sul letto delle proprie lacrime. Ma almeno questo, capire che nella vita bisogna solo scendere e non salire, questo è già un passo avanti: un passo in avanti che stranamente ti porta verso il basso. Perchè è il passo in avanti di quando stai sull'orlo del baratro.

29 Settembre...

..Grandi Compleanni, grande Radio..

..29 modi diversi per celebrare 29 compleanni...

..29 ragioni per celebrare 29 modi di festeggiare 29 compleanni..

.. Sempre da Ischitella, sempre collegati co' vvoi!

La stella che non c'è (e non ci sarà mai)

Il caso, si sa, ha il gusto del complotto; e così, la ricerca degli acquirenti di un altoforno difettoso spinge Vincenzo Buonavolontà sino in Cina, facendoci presagire un intrigo alla Angolo rosso.
Ce ne frega assai se questa centralina nuova, che andrebbe al posto di quella che non funge, alla fabbrica cinese ce l'avevano per davvero oppure no, prima che la portasse Vincenzo Buonavolontà. Alla fine il bello, se così si può dire, è proprio lì: non occorre stabilire se il tizio ha fatto un viaggio inutile con una zavorra d'acciaio in tasca oppure (vel) se gli operai cinesi non c'hanno capito niente (e domani, dopodomani al massimo scoppia tutto e qualcuno si fa male). Perché questo è un film sull'incomunicabilità, sugli il-limiti dell'interpretazione; e non c'è che una interpretazione possibile, limitata o sospesa, come volete voi, purché non univoca. Il paradosso è solo apparente.
Vincenzo è straniero tra gli stranieri; quel che conta è la reciprocità del gesto e del silenzio. Difficile identificarsi con un italiano come lui: troppo ingenuo. Non impossibile identificarsi con una ragazza cinese che parla l'italiano con quel pizzico d'esotismo che all'uopo corrobora i nostri (nostrani) prodotti.
Vincenzo non ha passato, non ha storia; direte: non ha profondità. Ma che significa? La profondità psicologica è una categoria sorpassata, ora al cinema c'è il sottile; lo spettatore più sprovveduto è in grado di inferire il viaggio senza vederlo, basterà che Castellitto si faccia la barba tra una scena e l'altra. Inferiamo pure che c'ha un passato disastrato, magari ha lasciato la moglie, magari ha rinnegato un figlio; lo inferiamo da quello che Vincenzo e la ragazza non si dicono. E ancora una volta l'intelligenza dell'opera sta nell'omissione.
Certo, il sospetto di stare assistendo ad un remake del film con Richard Gere ci attanaglia per metà del tempo; Castellitto però è bravo forte (peccato che gli abbiano messo in bocca battute talora indulgenti), e allora tutto ha un sapore diverso, diciamo europeo.
L'omissione del viaggio d'andata garantisce meglio la resa di certe distanze cinesi. Sì, ma perché la Cina? Perché la Cina è attuale, è probante. Però è meglio pensare che essa sia in fondo un valido pretesto per spazializzare massimamente una storia di non amore e non comunicazione, altrimenti tutto l'impianto somiglia ad un'invalido pretesto per farci vedere la Cina; e poi, anche qui, le due possibilità sono intercambiabili, ovvero (vel) convivono. Ma insomma il film mi è piaciuto o no? Non l'ho capito... Di sicuro una stella gli manca.

mercoledì 27 settembre 2006


CLIFF ’EM ALL

CLIFF BURTON (10/02/1962 – 27/09/1986)

To live is to die

When a man lies he murders
Some part of the world
These are the pale deaths which
Men miscall their lives
All this I cannot bear
To witness any longer
Cannot the kingdom of salvation
Take me home

martedì 26 settembre 2006


HA DETTO...

ti ho letto con piacere..carina sta cosa dell'agenda.

(da Commenti Su Smemorandum, prefazione all'appendice della nona edizione o postfazione al commento in terza copertina dell'ottava edizione, pubblicate entrambe in edizione limitata per sole librerie e caffetterie specializzate)

lunedì 25 settembre 2006


Smemorandum

Oggi ho comprato un'agenda, avevo troppi fogli volanti in tasca, mi serviva un po' di carta per annotare nuove idee, appuntamenti, numeri di telefono; mi serviva un nuovo mazzo di carte. E poi pioveva, e ancora piove, e certe cose se non le fai con la pioggia quando le fai? Ho comprato anche una matita, sapessi come scivola la matita sulla carta, sembrano fatte proprio l'una per l'altra, roba da non credere, cose dell'altro mondo. La prima cosa che faccio quando compro un'agenda è annotare il mio indirizzo in prima pagina; è importante ricordarsi dove si abita. Annoto anche il mio nome, ma il nome è raro che me lo scordi.

Però la sorte delle mie agende è sempre la stessa, dopo un po' le dimentico in una borsa, dimentico la borsa a casa e parto, vado. A un certo punto dimentico dove devo andare, allora mi dico: ora consulto l'agenda, ma subito mi accorgo che non ho con me la borsa con dentro l'agenda. Allora addio appuntamento. Dico: torno a casa. Ma senza agenda non so più dove abito, me l'ero scritto apposta, in prima pagina. Senza agenda addio casa, addio borsa; senza agenda addio agenda. E così di colpo mi saltano tutti gli appuntamenti, il dentista, la palestra, gli amici. E dimentico gli amici, e gli amici dimenticano me, e mi tocca ricominciare da capo a fare conoscenza con chi capita, sulla metro. Sulla metro che prendo così, senza meta, perché non ho più un'agenda che mi dica cosa devo fare, dove devo andare. E la gente che conosco così, per caso, mi lascia il numero di telefono, scritto su un foglietto volante.

Il più delle volte, per fortuna, mi ritrovo qualche soldo in tasca, e allora posso fermarmi alla prima cartoleria che incontro e comprare un'agenda nuova, e tutto si risolve. Ma quando mi ritrovo pure senza soldi, allora devo fare un po' il mendicante, dormire qualche giorno in strada, raccattare quei 5 o 6 euro che occorrono per un'agenda e una matita. E poi, subito dopo mi metto su una panchina, alla stazione della metro, e mi copio sull'agenda nuova tutti i numeri di telefono che ho in tasca, sui fogli volanti, quelli della gente che ho conosciuto sulla metro, e poi chiamo un numero a caso, il primo che capita. E mi risponde qualcuno e io gli dico come mi chiamo, che è l'unica cosa che so, e quello di solito si ricorda di me, e mi aiuta a rinfrescarmi le idee. E finisce che mi ricordo anche dove abito, allora torno a casa, ritrovo la mia borsa, la vecchia agenda. E la metto in uno scaffale, insieme a tutte le agende che non mi occorrono più.

sabato 23 settembre 2006


Rodriguez, te echo de menos..

venerdì 22 settembre 2006


Cafè Absurd ripropone Arduino Kakor, il massimo rappresentante della poieutica sub-capitolina.
Magmatico iper-espressionista, umorcronista nerissimo, esperto allusionista; il suo tocco è sempre in equilibrio sull'istante-lama, tra verità e bestemmia, tra dramma e avanspettacolo.

Il 21 settembre abbiamo pubblicato Er seguestro, dalla sua ormai celebre raccolta Poesie nere. Gradiatelo e commentiatelo.

giovedì 21 settembre 2006


Fluxus.
Salud dinero y amor

El colectivo de los amigos de radio 29 septiembre se encontra (?) junto en el grito: Lucìa non partire! Aunque si eres la novia de un hombre que aburra y mata los cojones a todo el mundo, nosotros te queremos lo mismo.

Buon viaje y vuele pronto a encontrarnos.

p.s. siempre corrigendome..

mercoledì 20 settembre 2006


Puoi anche credere nelle pietre.
L'importante è che non me le tiri contro.


(Una donna alla CNN)
Er seguestro

Tonino, Franco, Luigi Enzetto ed io, me metto in coda perké sono educato, a cena l'antra sera a Centocelle, parlanno de bùsinness e de affari, che de 'sti tempi sono cose rare, ce so' venute 'n paro de idee assi belle.
Chigliu sfaccimm'! Ma chi s' crer' 'e ess' - dicett' Toni, che viene da Afragòla, parlanno carezzava la pistola - 'Stu strunz , st'omm' 'e merd' 'stu f'tend' - si riferiva a un tizio co' la grana al quale je voleva fa no sgarbo, adesso vi ricconto la faccenda.
Il tizio, un pezzo grosso su ar comune, j'avea promesso in cambio di un pestaggio, de faje pija' l'articolo da matto, così ke Toni sistemava quarke noie; st'articolo però nun arrivava e il lavoro lui glielo aveva fatto, eccome, kiedetelo alla vedova Roselli.
Io invece de menaje... - disse Toni , ke parlava scioltamente due dialetti - senti ke famo: noi lo rapimo, lo portamo giù in cantina da mi' nonna e kiedemo er riscatto alla famija, u'mijardo sinnò lo famo a pezzi! E lo rimannamo a casa un po pe' vorta.
A me che io de affari ce capisco, m'era sembrata n'idea pe' gnente male, apparte i scherzi!
Tra il dire e il fare, nun c'amo messo un cazzo.
Rubbamo na giulietta a Via Ceprano, spettamo sotto casa er signorino, quello arriva parkeggia er motorino e quanno ke s'abbassa pe' mette la catena, Franco esce di dietro da una fratta, e bidibì, 'na tortorata in testa. Enzetto 'na sgommata e un testacoda, raddrizza la Giulietta e via. Affacciata alla finestra na vecchietta: "L'hanno rapito gesummìo madonnamia!".
'Mboccamo 'a Casilina senza fretta, portamo er signorino giù in cantina, e annamo a magnà er pesce a Fiummicino.
Er giorno appresso se semo divertiti. Sentite sto fattaccio.
Me metto du' cerase 'n bocca, pe camuffà la voce, annamo a 'na cabbina, Luigi detta er nummero e io faccio: "Pronto casa Ragneri, amo rapito tuo marito ieri... come dice? pasticceria allerchino? Attacco, tutti a ride ke casino.
A Lui' mortacci tua ke cazzo de nummero m'hai dato, ma ke ne so, e me sarò sbajato.
Ennò.
L'antr'ieri era la festa de mi' moje e j'ho ordinato 'na torta de mimosa, fa' stantro nummero 'sta botta è quello giusto.
Vojo vedè .
Pronto casa Ragneri? - co nantre du' cerase 'n bocca - Suo marito, l'avemo seguestrato, si lo rivole ce devi da un migliardo, sinnò sta bene qui hai capito kokka, te rikiamamo e te faccio sape' come.
Regà come so' annato? Tutto a posto?
Il giorno appresso scennemo giu in cantina, pe dà n'occhiata a come stava er tizio, nun se moveva e c'aveva er collo storto, a regà porkamado--a questo è morto! Emmò ke famo?
E ke famo? Je ne mannamo un pezzo alla famija, così sbrigamo sta faccenna, la recchia no, la recchia è robba vecchia, hai mai sentito noi je mannamo un dito.

L'affare stava a fa la ruzza er corpo de 'n morto dopo tre giorni puzza, la polizia girava pei quartieri, perquisizioni, marecialli, brigadieri, mitragliatrici e un pezzo grosso morto, sinceramente se stavamo a cacà addosso .

Un mese dopo.
Il Messaggero
"Trovato corpo la notte scorsa al fiume, probabilmente Dott. Ranieri Bruno , rapito il mese scorso a centocelle, le indagini, complessa la questione, il corpo in avanzato stato di decomposizione".

martedì 19 settembre 2006


Sino a che ti contrai nel vuoto puoi ancora pensare di essere in contatto con l'Uno, ma non appena pasticci con la creta, sia pure elettronica, sei già diventato un demiurgo, e chi si impegna a fare un mondo si è già compromesso con l'errore e col male.

[idem]

lunedì 18 settembre 2006


Logica mistica, il mondo delle lettere e del loro vorticare in permutazioni infinite è il mondo della beatitudine, la scienza delle combinazioni è una musica del pensiero, ma attento a muoverti con lentezza, e con cautela, perché la tua macchina potrebbe darti il delirio, e non l'estasi.

[U. Eco, Il pendolo di Foucault]

SE LO DITE VOI...

"Finchè ho un desiderio, ho una ragione per vivere. La soddisfazione è la morte".
"La vita livella tutti gli uomini. La morte rivela gli eminenti".
(George Bernard Shaw, drammaturgo, narratore e saggista irlandese)

"Fino al giorno della sua morte, nessun uomo può essere sicuro del proprio coraggio".
(Jean Anouilh, drammaturgo francese)

"Gli dei nascondono agli uomini la dolcezza della morte, affinchè essi possano sopportare la vita".
(Lucano, poeta latino)

"Gli uomini, fuggendo la morte, l'inseguono".
(Democrito, filosofo greco)

"Il continuo travaglio della vostra vita è costruire la casa della morte".
(Michel De Montaigne, filosofo e scrittore francese)

"Il più terribile dei mali, cioè la morte, non è niente per noi, dal momento che, quando noi ci siamo, la morte non c'è, e quando essa inesorabilmente arriva, noi non siamo più".
(Epicuro, filosofo greco)

"La morte distrugge un uomo: l'idea della morte lo salva".
(Edward Morgan Forster, scrittore inglese)

"La morte mostra all'uomo ciò che egli è".
(Christian Friederich Hebbel, drammaturgo tedesco)

"La morte si sconta vivendo".
(Giuseppe Ungaretti, poeta italiano)

"L'interesse per la malattia e la morte è sempre e soltanto un'altra espressione dell'interesse per la vita".
(Thomas Mann, scrittore tedesco)

"Morte... è l'unica cosa che non siamo riusciti a volgarizzare del tutto".
(Aldous Huxley, scrittore inglese)

"Noi tutti siamo rassegnati alla morte: è alla vita che non siamo rassegnati".
(Graham Greene, scrittore e drammaturgo inglese)

"Non cercare la morte. La morte ti troverà. Cerca piuttosto la strada che rende la morte un compimento".
(Dag Hammarskjold, politico svedese)

"Non è la morte, ma il morire, che è terribile".
(Henry Fielding, drammaturgo, giornalista e scrittore inglese)

"Non temete tanto la morte, ma più lo squallore della vita!"
(Bertold Brecht, drammaturgo, regista e poeta tedesco)

"Quanto più un uomo è forte e tanto più dolorosamente sente pesare su di sé la morte".
(Anonimo, tuttologo, nazionalità sconosciuta)

"Vai e prova a confutare la morte: la morte confuterà te, ed è tutto!"
(Ivan Turgenev, romanziere e drammaturgo russo)

"La morte è dolce a chi la vita è amara".
(Tommaso Campanella, teologo, filosofo e poeta italiano)

"La morte è spaventosa, ma ancor più spaventosa sarebbe la coscienza di vivere in eterno e di non poter morire mai".
(Anton Checov, medico, scrittore e drammaturgo russo)
...


[dal romanzo Poca fantasia, di Francis Pagliacci]

venerdì 15 settembre 2006



Mettete dei fiori nei vostri cannoni...

giovedì 14 settembre 2006

GENIO ISPIRATO E/O ISPIRAZIONE GENIALE



L'Ispirazione non è un interruttore che si accende o si spegne. Non è bianco o nero. Non è yin o yang. E' l'insieme delle cose.
Per qualcuno è una particolare eccitazione della mente, della fantasia, del sentimento. Per altri è semplicemente una irrazionale ed incomprensibile esplosione di creatività. Secondo i romantici l'Ispirazione era causata dal Genio. E cos'è il Genio?
Quegli stessi romantici lo consideravano una specie di dio (ma sarebbe stato meglio dire: una specie di demone) interno all'artista. Per Gastone Moschin in "Amici Miei - Atto II", cito testualmente, "è fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione".
Ispirazione e Genio hanno lo stesso viso, ma non sono uguali. Piangono le stesse lacrime, ma queste scivolano con lentezza differente. Così mentre l'una sembra piangere di dolore, e mente; l'altro sembra piangere di gioia, e mente. Ispirazione e Genio sono lì per trarti in inganno, sempre. Ti deliziano con i loro trucchi, e poi ti lasciano a bocca asciutta; sono scintilla ma non fuoco. Inutile aspettare di vedere la scintilla se quello che guardi è già il fuoco. E talvolta, purtroppo o per fortuna in base ai casi, si può avere fuoco anche senza scintilla...come hai ben capito, il mio accendino non funziona.

(AAVV, dal saggio La Realizzazione Di "O La Nave O Un Altro Animale", dal capitolo Intervista Di Un Anonimo Lettore, risposta alla domanda "scusa, hai da accendere?"; immagini tratte da Genio Ispirato e/o Ispirazione Geniale, libro fotografico-citazionista incluso nell'edizione espansa in lingua esperanto de O La Nave O Un Altro Animale).
HERE COMES THE WINTER
















Taci. Su le soglie / del bosco non odo / parole che dici / umane; ma odo / parole più nuove / che parlano gocciole e foglie / lontane. / Ascolta. Piove / dalle nuvole sparse. [...]


(Gabriele D'Annunzio, La Pioggia Nel Pineto, da Alcyone; data di composizione ignota, presumibilmente tra luglio 1902 e agosto 1903)

EFFETTI DILUCE E/O GIUOCHI DIPAROLE


La Sfinge insegna che le avversità vengono superate al tramonto. Quando ormai è troppo tardi. O forse, quando ormai c'è rimasto solo il tempo di guardare alle proprie spalle il percorso fatto, per giorire dei propri successi e piangere delle proprie disfatte. Ma, se alla fine del labirinto nel quale ti eri perso, vedi la luce del giorno, allora sai che puoi andare avanti e che c'è ancora molta strada da fare, lì fuori. E tu potrai solo gioire, perchè a piangere saranno le avversità che non sono riuscite a trattenerti così a lungo. Non avere pietà o rimorsi per quelle lacrime, tentano solo di commuoverti per poi aggredirti, ma per questo ci sarà tempo al tramonto; quindi adesso fai l'unica cosa giusta da fare: vai avanti.

(AAVV, dal saggio La Realizzazione Di "O La Nave O Un Altro Animale", dal capitolo Il Numero Diciassette: Un Finto Ostacolo Superato; immagine tratta da Effetti Diluce e/o Giuochi Diparole, AAVV, libro fotografico-citazionista incluso nell'edizione speciale limitata de O La Nave O Un Altro Animale).

LA DAMA NERA (Parte XVIII)

Il Selvaggio camminò svelto: ampie falcate come se stesse scappando da qualcuno, bavero alzato come se si stesse nascondendo da qualcuno, lo sguardo fisso a terra come se non si fidasse dei propri piedi e rapide fugaci occhiate verso l’orizzonte di quella via, tanto per essere sicuro su dove stesse andando. La luce era fioca e soffocata dalla condensa di aria pesante che, quasi tangibile, avvolgeva tutta la strada. La mente in quel momento era spoglia. Il camminare veloce e le folate gelide di vento rallentavano i pensieri che non riuscivano a stare al passo, erano troppi, si accavallavano, si ostacolavano, non facevano gioco di squadra e inevitabilmente rimanevano confinati in una parte marginale di cervello, senza riuscire a mettersi in mostra, mescolandosi a sprazzi di ricordi e sensazioni andate.
Arrivò in poco tempo davanti ad una porta di legno. Piccola. Si apriva solo una delle due ante e lo spazio era appena sufficiente per far passare una persona di traverso. Esitò per un attimo. Era tentato di bussare al custode del condominio per farsi aprire, in quanto non voleva che la sua visita fosse annunciata, temendo un secco rifiuto. Si era fermato e i pensieri stavano per assalirlo nuovamente, senza scampo e bloccarlo in vorticosi dubbi amletici.
Ma fu presto destato dal cigolare della porta che si stava aprendo dall’interno. Inizialmente rimase immobile, quindi si fece cortesemente da parte per far passare. Dal buio dell’interno del palazzo uscì una figura ancora più oscura, dai contorni non definiti. Era paralizzato, impietrito. Quando la nera figura si affacciò lentamente oltre l’uscio capì che era una donna. Di nero vestita. A lutto. E sul viso portava un velo che non mostrava i contorni degli occhi, della bocca e del naso, li faceva intuire con il riflesso della luce, li faceva immaginare con la trasparenza del velo. Il Selvaggio in un secondo momento, ripensando a quell’istante, non poté esimersi dal riflettere che tutto ciò era terribilmente sensuale e sensualmente terribile. Sapeva che per un istante almeno i loro sguardi si erano incontrati. E si era perso nella notte.
Era rimasto a bocca semi-aperta, come quando si sta per dire qualcosa ma la lingua si rifiuta di pronunciarla, come quando si sta per balbettare ma ci si interrompe prima di emettere un qualsiasi suono. Probabilmente non era la massima espressione di intelligenza quella che il Selvaggio aveva mostrato in quel momento. In passato si sarebbe rammaricato di ciò: teneva molto ad apparire al mondo straniero (rappresentato da chiunque purché sconosciuto) una persona tutta d’un pezzo, ormai formata, intaccabile, impossibile da prendere di sprovvista; la prigione lo aveva cambiato, gli aveva fatto accettare la spontaneità che la società gli aveva imposto di togliere.
Il tutto durò una frazione di secondo. Perché la Dama Nera uscì dal portone, e scomparve avvolta dal velo della notte che, allontanandosi, si avvolgeva alle sue spalle come a proteggerla, come ad abbracciarla.
Il Selvaggio aspettò interdetto finchè la strana figura non scomparve del tutto alla sua vista, la quale in galera si era tanto abituata al buio ma non riusciva a penetrare se non di pochi metri l’assoluta oscurità che come un muro si ergeva al di là della luce del lampione. Quindi si fece nuovamente carico dei buoni propositi, quei buoni propositi che per un attimo d’incanto aveva d’incanto dimenticati.
Salì come una furia le scale, per scrollarsi di dosso quella immagine scura, affascinante, tremenda che gli sussurrava la mente, e quando arrivò alla porta dell’appartamento, neanche riuscì a stupirsi più di tanto nel trovarla socchiusa.

Il senso di Rodriguez per la pioggia...

mercoledì 13 settembre 2006


L'UNICO MOTIVO

"La gente ha sempre dichiarato di voler creare un futuro migliore. Non è vero. Il futuro è un vuoto che non interessa nessuno. L'unico motivo per cui la gente vuole essere padrona del futuro è per cambiare il passato".

(Milan Kundera, 1929, scrittore ceco; immagine tratta da Moznosti dialogu, regia di Jan Svankmajer, 1982)

CITAZIONE

"C'è sempre un momento nella vita di un attore, nella vita di un uomo, quando comincia a possedere la sua taglia, quando cominci ad accettare responsabilmente le tue opportunità, ammettendo la profondità della tua ambizione, entrando in un diverso livello di maturità".

(Ed Zwick, regista, intervistato da Mary McNamara per Los Angeles Times, tradotto da La Repubblica, riferito a Leonardo Di Caprio)

Chi perde non piglia pesci

E' dunque ormai chiaro come l'atto di scrivere non sia altro che un processo di transustanziazione. Come il pane diventa infatti ,per opera dello spirito santo, il corpo di Cristo ed il vino il Suo sangue così la poesia, si legga opera artistica in generale, addiviene a forma cosificata di uno spirito che in essa ancora scorre e del quale ne è inevitabile alienazione. A trans-formare l'opera singola nell'Opera archetipicamente intesa ci pensa lo spirito, non Santo, ma dei tempi, così come inteso d aHegel in poi. Dichiaro dunque, solennemente e nel sorgere dello sbadiglio generale, che l'arte è bella perchè a noi ci piace tanto. Anche quando è brutta. E se non riuscite ad apprezzarla è perchè siete ignoranti come delle capre. Bestie!!
p.s. e pensare che le uniche parti che ho copiato sono le ultime due righe..

martedì 12 settembre 2006

Vogliate pazientare, stiamo lavorando per voi.

[dal romanzo O la nave o un altro animale di AAVV]

sabato 9 settembre 2006

CHI VEDE L'USCITA (Parte XVII)
Quando si è al buio gli occhi si abituano all'oscurità. Ma quando il buio è totale, anche gli occhi si perdono, assaliti da una paura atavica di un vuoto primordiale. L'assolutezza dell'esperienza comporta la totalità di oblio. E viceversa. Se la certezza che l'uomo ripone nel proprio sguardo vacilla, automaticamente la mente si rivolge agli altri sensi, per così tanto tempo sottovaluti o ignorati.
La vista è il senso più ingannevole, non il più fragile ma il più debole, eppure si è imposto da millenari passati. Il gusto, il tatto, l'olfatto di quando in quando si ribellano, sapendo che a turno avranno il proprio momento di gloria; si accontentano di questo. L'udito è il senso più umile ma non scende a compromessi, neanche lascia intuire la sua più nobile importanza; permette altresì che la vista prevalga per mantenere con buon senso il giusto equilibrio.
Così, solitamente, quando la vista viene spodestata dal proprio immeritato trono, facendo cadere la propria corona e donando il proprio scettro per la salvezza, è l'udito il primo tra i fratelli e le sorelle ad accorrere.
Ma l'appello di aiuto gridato dagli occhi non è razionale, è emozionale: una dichiarazione d'amore nei confronti di sè stessi, quando si perde contatto con la materia e si precipita nell'abisso. Talvolta ci si rivolge troppo tardi agli altri sensi; talvolta la fiducia è compromessa e non riusciamo a credere alle cose che tentano di farci capire; talvolta, semplicemente, siamo così presi dalla sensazione di pericolo che siamo sordi ad altri richiami, non riuscendoli a decifrare.
La natura di quell'animale chiamato uomo è strana. Permette di abituarsi a tutto, anche al niente. Quando si ha tempo di riflettere, le aspettative sono tante, i sogni ancor di più, l'ambizione concilia le due cose, ma la speranza è sempre una: quella di riuscire a riflettere ancora per il secondo successivo, per il minuto successivo, per l'ora successiva, per l'eternità successiva. Se ci si accorge di una luce, il corpo prima si ritrarrà dalla luce, poi la vista tornerà ad usurpare con tracotanza il suo scranno, quindi il corpo si avvicinerà alla luce; ma la mente no. Perchè quello che prima era un desiderio, adesso, per la diffidente mente abituatasi alla mancanza, si rivelerà solo un tardivo e comunque deludente regalo atteso da tanto.
Ci si accorge che l'oscurità amniotica che ci avvolge possiede uno spazio, possiede una forma, possiede inevitabilmente un nostro giudizio, possiede inevitabilmente anche un nostro biasimo.
Tutto questo sentiva il Selvaggio, tutto questo lo faceva sentire spaesato: era uscito dal Cafè Absurd, praticamente per la prima volta. Vi era entrato alle 7 e 03 di allora e ne usciva alle 7 e 03 di ora. Nulla era cambiato dal suo ingresso eppure tutto era così diverso. Non sapeva se il brivido di freddo veniva da fuori o da dentro. Per farsi coraggio rimboccò il bavero del giacchetto, si infilò le mani nelle tasche e giocherellò delicatamente con il barattolo. Imbacuccato, lo sguardo fisso a terra come sconfitto dal peso di una amarezza ineluttabile, si incamminò a grandi prudenti falcate verso il suo obbiettivo, l'orizzonte di quella strada che si apriva alla sua destra.

venerdì 8 settembre 2006


LE BACCHE DI RIBES (Parte XVI)
"Si, si, come no Doc, il succo di ribes è l'antidoto e l'aranciata amara è il veleno". L’affermazione doveva essere spiritosa, ma invece uscì fuori come l’ennesima dimostrazione dell’antipatico, offensivo e superficiale atteggiamento denigratorio maturata nei silenzi del braccio di Eltersdorf.
Il Dottore mostrò una notevole capacità di autocontrollo e pazienza, doti che in casi come questo avevano il potere, quasi magico, di rimarcare con sottile discrezione l’inopportunità delle parole pronunciate, facendole rimbombare con impudica insistenza nel baratro d'oblio nel quale erano destinate a cadere. Quindi, per niente mortificato, aggiunse in tono bonario: "Senti, Selvaggio, non nego che l'aranciata amara possa essere sgradevole e sicuramente non piace a tutti, ma mi devi credere, il succo di ribes è l'antidoto. Anzi, non ti dico di credermi. Dall'alto della tua pragmaticità, semplicemente, provalo!". L’ultima frase la pronunciò rallentando, svelando la semplice soluzione di un problema inesistente.
"E se anche fosse così, dimmi, come potrebbe una pianta comune in Africa o in India essere coltivata su un'isola del Baltico? Voglio dire, il clima e tutte quelle cose là...".
"Semplice. Una serra artificiale. Di spazio, viste le dimensioni del complesso ne dovrebbero avere tanto. E anche di risorse. Convinto?”. Ovviamente non ci poteva essere risposta che non fosse negativa, lo sapevano entrambi, e il Selvaggio preferì far finta che la domanda fosse retorica. “Ecco qui”. E mise sul tavolo con un gesto plateale un barattolo di vetro, chiuso con una stoffa sottile fissata da un elastico.
All’interno del recipiente erano costipate in ordine sparso piccole praline variamente colorate. Bacche di ribes, alcune delle quali ancora mostravano orgogliose all’apice le vestigia del fiore. Ora spuntava una sfera accesa di rosso, ora una timida di rosa, ora una pallida di giallo, ora una austera biancastra, ora una decisa di nero, ora una elegante in viola scuro. L’effetto ottico era meraviglioso. Nella trasparente tavolozza i colori brillanti si mescolavano in un innaturale arcobaleno con le tonalità più opache, regalando alla vista un effetto di indicibile bellezza.
Nel locale c’erano giusto un paio di individui: uno con il cappello e l’altro con un maglione rosso. Non facevano altro che gesticolare e fumare, presi e persi un discorso che nessun altro avrebbe appassionato. Probabilmente non si erano accorti di nulla.
Il Selvaggio, ormai poco avvezzo a lasciarsi andare con spontaneità a comportamenti che fanno trasparire quella sensibilità ritenuta a torto tipicamente “umana”, non riuscì a trattenersi dall’afferrare il barattolo ed annusarne il contenuto avvicinando il naso alla stoffa che ne imprigionava il contenuto ad una estremità. Sapeva bene che non sarebbe riuscito a trovare alcun aggettivo adatto a quel profumo, così unico.
Il Dottore se ne accorse e aggiunse per confortarlo: “Quello più chiaro è ribes rebrum. La polpa è dolce-acidula, acquosa. Quello più scuro è ribes cassis o ribes nigrum, dal sapore e dall’aroma volpino. Quando le assaggerai capirai la differenza”. La spiegazione risultò comprensibile e confortante come l’analisi di un fenomeno meteorologico fatta ad un bambino che per la prima volta vede la pioggia, ma almeno la scientificità dell’affermazione non riuscì minimamente a scalfire il fascino di quell’incredibile oggetto che il Selvaggio si ritrovava tra le mani.
Questi allora fece qualcosa di inaspettato: si infilò il giubbotto, vi sistemò il barattolo adagiandolo accuratamente in una delle tasche e si congedò dal Dottore, stupito ed interdetto da tanta risolutezza: “Vecchio, mi hai detto cose che probabilmente non sa nessuno al di fuori delle mura di quella vecchia prigione. E mi hai anche detto altre cose che non avevo detto a nessuno. E non so come hai fatto a saperle. E anche se ti torturassi qui e adesso sono sicuro che non mi riveleresti la tua fonte. Quindi devo risalirvi io, ed ho già un paio di idee riguardo a quali porte bussare. E soprattutto, Doc, la cosa più importante: ci sono cose che non mi hai detto”. Quindi si alzò il bavero del giubbotto, e girò le spalle al proprio interlocutore, incamminandosi verso l’uscita.
Quest’ultimo, quasi impaurito, con frenesia giovanile scattò dallo sgabello e fece per fermarlo, afferrandogli il braccio, ma a parte uno sguardo minaccioso non ottenne risultati.
Fece un ultimo disperato vano tentativo: “Non puoi andartene così!”. Aveva alzato la voce. Il tizio con il cappello smise di gesticolare e di parlare, ignorò perfino la sigaretta fumante appoggiata sul posacenere; quello di spalle, con il maglione rosso, girò la testa e sbirciò la curiosa scena, gustandosela con fugaci assaggi di tabacco. I melodrammi raramente andavano di scena da quelle parti.
“Lasciami stare, vecchio. Tu mi hai fatto una proposta. Io te lo avevo detto, devo riflettere. Tu hai accettato. Nessun rancore. Quando vorrò darti il mio responso, mi rivolgerò all’Oste e lui saprà come e dove trovarti. Ma anche tu dovrai esser pronto a dirmi tutto”.
La presa del Dottore si allentò, il Selvaggio voltò di nuovo le spalle al suo mondo e uscì dal locale, lasciandolo bofonchiare qualcosa che lì per lì non capì: pensava fosse un rimprovero o una espressione di delusione, solo molto tempo dopo sarebbe riuscito a decifrare quell’ultimo misterioso avvertimento.

giovedì 7 settembre 2006

Uno sconosciuto (parte XV)

In alto la fitta torma s’era finalmente aggruppata in quattro nubi massicce. Tra di esse una luna più vaporosa giocava a nascondersi e riapparire. Era lecito aspettarsi una serata mite. Un altro lato del cielo era di un azzurro intatto, uniforme; l’aria risplendeva diffusamente ed il sole magnificava un tepore fresco ed immobile. Antipyrgos e il suo nuovo amico passeggiavano ora lungo i sentieri di un giardino del centro, lieto l’uno che il caso l’avesse infine condotto in un luogo tanto rassicurante, lieto l’altro che l’uno fosse lieto.

Solo mezz’ora prima, allontanandosi dall’ateneo nella più perfetta solitudine, Antipyrgos aveva attraversato tre o quattro strade tra macchia e cemento brullo, costeggiate ai due lati da pianori di terrame grigio e spaccato; in fondo ad essi si ergevano gli scheletri di case non ancora nate. Spirava un venticello affilato e pareva dovesse piovere da un momento all’altro. Il giovane aveva insaccato poi la radura del Langravio, tra due palazzi troppo grandi, dal fondo di via Bretzel; così era scritto sul rettangolo di marmo, via bretzel; che quella si chiamasse radura del Langravio, invece, gliel’aveva detto un uomo che passava di lì per caso…

“Ehi tu! Giovane!”

Antipyrgos si arrestò, trasalì leggermente; qualcuno, ad un migliaio di chilometri da casa sua, gli si stava rivolgendo nella sua lingua. Si voltò: vide un tipo alto e magro, con un paio di baffi sottili come i suoi occhi e, sulla testa, una selva di ricci nericci.

Hai dei fiammiferi?”. Antipyrgos, esitante, si tastò le tasche dei calzoni, trasse un accendino, glielo porse. Lo sconosciuto, riparandosi dal vento con una mano, diede fuoco ad una sigaretta piccola e storta, spiandolo di sottecchi. Il giovane non poté trattenersi dal chiedere:

“Come sapevi che ero italiano? Non ho mica la faccia da italiano, io. E siamo a Vienna.”

“Non hai la faccia da italiano, tu?” fece l’uomo, restituendogli l’accendino. “Non hai la faccia da italiano?”

“Ho la faccia da italiano?” chiese Antipyrgos, sorridendo. L’altro ricambiò il sorriso:

“Benvenuto nella radura del Langravio. Il luogo meno accogliente della città. Io mi chiamo Ziga Leitner - disse tendendogli una mano ossuta - Sono poeta.”

“Antipyrgos Parlagrieco, aspirante scrittore.”

“Come hai detto?”

“Aspirante…”

“No, voglio dire, ti dispiacerebbe ripetermi come ti chiami?”

“Antipyrgos. Ah, lascia perdere, è una storia lunga e un po’ triste – disse, agitando una mano - Tu, piuttosto, come conosci la mia lingua?”

“Dalle mie parti si studia parecchio, amico mio; il più incolto dei miei conterranei di lingue ne conosce almeno tre o quattro.” fece Ziga, con voce falsamente altezzosa.

“Caspita!” non poté fare a meno di esclamare Antipyrgos, non senza un tocco di allegro scetticismo. Leitner accennò ancora un sorriso complice:
“Lascia che ti accompagni per un tratto, c’è di meglio da vedere che quest’erbaio, conosco bene la città.”

“E’ molto che ci vivi?” fece il giovane, accennando a riprendere il passo.

“No, non sono queste, le mie parti - ribatté Ziga, soddisfatto che l’altro avesse implicitamente accettato l’invito a proseguire il cammino assieme – ma dove sto io, ripeto, ci insegnano molte cose.”

“Vi insegnano anche la topografia dettagliata delle città del mondo?”

“Anche questo.”

Risero. Poi Ziga soggiunse:

“No, sono qui da quasi tre settimane. Un viaggio di piacere. Tutti i pomeriggi mi trattengo un paio d’ore nel parco della biblioteca, che sta qui vicino.”

Passeggiavano. Si liberò loro tutt’intorno un cielo polmonare, diffusamente biancosporco e sfocaticcio, che illividiva appena in un cerchiastro più lucente proprio di fronte. Antipyrgos si voltò, colto dal bisogno di veder rimpiccolire i due palazzoni di prima, ma ebbe un effetto inatteso: la distanza e la luce frontale li glorificavano.

“Strano posto, questa città, non trovi?” domandò Ziga.

“Mi pare un posto tranquillo. Mi aspetto di restarci a lungo” fece il giovane, ostentando una certa chiarezza di idee. L’altro lo interrogò:

“Stai cercando qualcosa?”

“Nulla di concreto. Nulla che si possa riconoscere a prima vista.”

“Che intendi dire?”

Il ragazzo parve perdere la sicurezza di un istante prima:

“Cerco piuttosto uno stato mentale. Cerco… cerco una serenità… come dire... Su tutto cerco un modo per fare tutto quello che voglio fare, senza dover rinunciare ad una cosa per l’altra. Capisci che intendo?”

“Beh, non è poi difficile…”

“Certo, è solo una questione di tempo, voglio dire, del tempo che hai a disposizione.”

“Il lavoro ti prende molto tempo?”

“Che lavoro? No, non lavoro. Ma la quesitone è un'altra. Vorrei avere il doppio del tempo che ho, in modo da dover attendere la metà del tempo per vedere i risultati dei miei sforzi..."

Sul volto di Ziga scese uno sguardo a metà strada tra curioso e perplesso. Antipyrgos sentiva la necessità di correre ai ripari. Tuttavia provò a farsi coraggio e a continuare il discorso iniziato:

“Sai che penso? Ah, lascia stare, è un’idea sciocca…”

“No, dì, dì, ora voglio sapere!”

“Quand’ero a Roma talvolta c’ho provato… Ho provato a smettere di dormire… Si può fare, secondo me si può smettere di dormire!”

Ziga lo interruppe d’improvviso. Diede alla sigaretta una profonda, ultima boccata. Poi prese a raccontargli la storia di un’isola di pescatori, di un caffè, di tre signori che giocano a carte, di pirati che la sanno lunga, di misteriose navi che salpano tutte le notti verso chissà dove, di un carcere di massima sicurezza come se ne legge solo sui libri…

Intanto erano giunti ai giardini della Biblioteca Imperiale, s'erano seduti sotto un leccio; poco dopo s'erano rimessi in marcia. Antipyrgos si meravigliò di come, senza che ne fosse reso conto, fosse passato da un paesaggio tanto desolato ad uno così confortante, dal maltempo al sole, dalla solitudine alla preziosa compagnia di quell’uomo, quel Ziga; un giovane brillante, colto, persino divertente. In alto la fitta torma s’era finalmente aggruppata in quattro nubi massicce. Tra di esse una luna più vaporosa giocava a nascondersi e riapparire. Era lecito aspettarsi una serata mite.



DATURA STRAMONIUM (Parte XIV)
"Sbrigati, Dottore. Non voglio rimanere tutta la vita a sentirti".
"La pazienza è la virtù dei forti, no? E un po' di suspance non fa mai male, l'attesa aumenta il desiderio! Sto solo cercando le parole giuste da usare per dirti..."
"Non devi trovare le parole giuste, Doc, devi semplicemente parlare!"
"Ok, ok" e il Dottore fece una lunga boccata di sigaretta. "Quello che hai sul petto è l'effige di Eltersdorf..."
"Grazie tante, vecchio. Se continui così mi rivelerai anche che sto bevendo whiskey" e il Selvaggio buttò giù un altro goccio.
"Lasciami finire, almeno. Non mi interrompere". Si potevano vedere i suoi occhi brillare: "E' una effige apposta con un ferro incandescente. Sinceramente non so perchè lo facciano. Forse una semplice dimostrazione di superiorità, forse per non dimenticarti che sei stato lì. Un'esperienza che segna, senza dubbio" (sorrise dolcemente) "Questo tipo di cose, di branding, di imprinting, secondo alcuni gruppi sociali dovrebbe provocare una sorta di piacere, perchè il corpo non è materia naturale ma materia culturale, conformato alla nostra cultura, e così viene stimolato verso una produzione di segni, codici, simboli. In alcuni gruppi questo tipo di pratica è considerata una iniziazione vera e propria, con un potere magico e sacerdotale, un talismano potente e sempre presente che segna la pelle e l'animo di chi lo "indossa", uno strumento che permette il passaggio verso l'età adulta per alcuni, verso una più adulta fase di maturazione spirituale per altri". Lo sguardo del Dottore era adesso uno sguardo sognante, perso ormai come il suo discorso: "Uno stampo d'acciaio riscaldato che una volta incandescente viene applicato sull'epidermide. Questo è l'effige. Il calore distrugge le terminazioni nervose della zona che perde la sensibilità per sempre. Equivale più o meno ad una ustione di terzo grado. E, ovviamente, questa cicatrice in rilievo che ti ritrovi, è indelebile".
"Mi stai facendo perdere tempo, Doc. Mi stai dicendo cose che già so o che non mi interessa sapere. Avevamo detto do ut des. E ancora non mi hai dato nulla. Lo so come mi hanno impresso questo marchio, questa effige. Lo so perché ero cosciente. Ti avevo chiesto il perché delle mie visioni e tu avevi affermato di conoscerlo”. Una volta interrottosi il Selvaggio si morse la lingua: in effetti non aveva sentito nulla di nuovo, ma aveva già dato una informazione per niente scontata, che era cosciente, ed il Dottore sicuramente se ne era accorto e sapeva adesso di stare in vantaggio, seppur solo di una incollatura.
“D’accordo, d’accordo”. Il Dottore riprese a parlare come se l’interruzione non lo avesse minimamente scalfito, sembrava avere un asso nella manica e non poteva non vincere e convincere il proprio interlocutore. “Arriviamo al dunque. Arriviamo al motivo delle tue visioni”.
“Alleluia” e alla boccata di sigaretta del Dottore, il Selvaggio rispose con un altro sorso di whiskey.
“Datura Stramonium. In Europa è conosciuta come semplice Stramonio. E’ una delle droghe della tradizione occidentale magica adibita alla preparazione di filtri ed unguenti. Datura Stramonium, demoniorum natura: così la chiamavano per non attirarsi le ire di dio, degli dei o dei demoni. Era considerata in grado di produrre febbre, dissenteria, colpi di calore e sete, sincopi e svenimenti. E’ raro che venga usata e soprattutto è raro che venga trattata adeguatamente con cura per il suo uso. E’ ovvio che all’interno delle mura di Eltersdorf ci deve essere una piantagione di Datura Stramonium, altrimenti sarebbe impossibile farla arrivare per tempo e senza inconvenienti da fuori l’Isola. E devono averne iniziata una coltivazione quasi industriale. Anche perché il rituale per il suo recupero – se così vogliamo dire – non è semplicissimo. Ricorda quello della mandragora, serve infatti un bastone di Paloverde, l’unico arbusto in grado di toccare la radice della Datura senza ferirla ed intaccare le sue qualità”.
“E mi avrebbero fatto mangiare questa porcheria?” il Selvaggio lo chiese con poca convinzione.
“Non dire sciocchezze, non è così semplice. Se fosse stato così l’effetto sarebbe durato poco. Mentre quando ne sei uscito ancora ne soffrivi. E ancora ne soffrirai. Non ti hanno fatto ingerire niente, ti hanno applicato la Datura sull’effige, in modo da far circolare nel tuo sangue quella droga. Non te ne libererai tanto facilmente. La Datura possiede quattro “teste”: la radice, con la quale si conquista il potere della pianta; lo stelo e le foglie che servono a scopo terapeutico; i fiori, il cui scopo è uccidere, far impazzire e rendere schiava una mente; e infine i semi, che sono la testa più potente. Non ne sono ancora sicuro, ma per i dati finora in mio possesso, dovrebbero avere scoperto e approfondito una variante della tecnica indiana o di quella africana. Lo stesso tipo di Datura compare nella tradizione indiana come afrodisiaco per affrettare l’orgasmo delle donne. La formula prescrive un unguento composto da grani di pepe nero, di betel, di scorza di lodhra (symplocos racemosa) macinata e tritata e miele bianco, il tutto da applicare sul pene. In Africa presso alcune tribù la Datura veniva utilizzata in alcune veglie notturne, durante la filatura del cotone e provocava uno stato di ebbrezza. Si tramanda ancora che i semi, se ingeriti, possono provocare una sorta di possessione simile a quella divina. Secondo la leggenda le ragazze possedute si muovono tremando, in attesa del Griot, il suonatore sacro che con il suo tamburo invita le ragazze stesse alla danza; e queste ultime con la musica si calmano e la danza fa fuggire il “Babba Jiji” che è entrato dentro di loro con la Datura. Nel tuo caso il “Babba Jiji” che ti procura le visioni, sempre se così vogliamo chiamarlo, è ancora dentro di te”.
Il Dottore prese una pausa, ne aveva bisogno. E ne aveva bisogno soprattutto il Selvaggio, frastornato da troppo informazioni. Così il Dottore sacrificò l’ennesima sigaretta spegnendola sull’altare della cenere e aspettò una risposta dall’uomo seduto al suo fianco. Il Selvaggio, dall’alto del suo cinico pragmatismo, mentre rielaborava tutto il discorso del Dottore riuscì intanto a chiedere, non senza la ormai consueta ironia mista a malizia: “E magari, visto che sei così ben informato, mi potrai anche dare una cura, immagino, Dottore…”.
“Certamente, Selvaggio. Succo di ribes. L’antidoto è il succo di ribes”.

mercoledì 6 settembre 2006



Aporie (parte XIII)

Vienna, 17 luglio 1965

Salute Illustrissimo! Come te la passi? Sono sicuro che hai impiegato le ultime tre settimane a pescare. Ti invidio, cazzo, di questi tempi a Nexo si pesca alla grandissima!
Ebbene, caro mio, mi duole doverti comunicare che è giunta l'ora di recuperare la lenza e di mettersi al lavoro. Il pesciolino che cercavamo ha finalmente abboccato, e tutto sommato si sta rivelando una preda facile. Ora capisco perché i ragazzi di Roma ce l'hanno indicato con tanta insistenza; credo ci abbiano visto giusto, stavolta. E' un ragazzotto italiano, ha la pelle scura e qualche chilo di troppo... L'ho trovato un giovedì mattina all'Università, come m'avevano detto. Ho seguito un po' i suoi spostamenti; l'ho adescato finalmente dalle parti della Biblioteca Imperiale, nel parco. S'è rivelato un tipo socievole, malgrado le riserve iniziali. Insomma, parla poco e non si perde mai in formule di circostanza, ma ci si chiacchiera bene, se lo conosci un po' è davvero un compagnone! Tra le altre cose m'ha detto che il suo obiettivo nella vita è smettere di dormire, così da potersi dedicare a tutto quel che più gli piace: viaggiare, leggere, ubriacarsi... Eh sì, è un po' scoppiato... Così gli ho imbastito la storia che racconta sempre il Pirata, quando torna dai suoi viaggetti e si siede ad un tavolo col suo fiasco di Rum: quella che certi tizi, ovvero Vontalk, Peterson e Nikolajevic, sono sempre stati lì, in quell'angolo del Café Absurd, a giocare a carte, dacché esiste il locale, ogni giorno, notte e dì, e nessuno li ha mai visti entrare né uscire, né smettere di giocare o iniziare una partita nuova, nemmeno Kittelmann, il proprietario; e Kittelmann quando chiude li lascia dentro, a giocare, e quando riapre lì ritrova lì. Oh, se lo dice quel filibustiere da quattro soldi c'è da fidarsi, è il più vecchio di tutti là dentro, no? Mica gli ho raccontato una frottola al nostro ometto, in fin dei conti... Neanch'io, a quei tre, li ho mai visti entrare, né uscire. Ma ogni tanto, sai, il ragazzo c'ha i suoi sprazzi di lucidità, è un tipo sveglio, cazzo. Mi ha detto: "Beh, vedi, questa ha tutta l'aria di un'aporia eleatica: se quei tre sono i soli a non aver mai abbandonato il locale, chi a parte loro tre potrebbe dire che loro tre sono i soli a non aver mai abbandonato il locale?"
Sì, tutto sommato è in gamba, quasi mi dispiace che tocchi a lui. D'altra parte un giorno avrà il suo tornaconto, da questa faccenda, non trovi?
Mi riservo sette, otto giorni per convincerlo a seguirmi a Bonholm, voglio andarci cauto. Non vorrei che fiutasse qualcosa; non accadrà, chiaro, cosa vuoi che fiuti? Ma in fondo meglio ritardare di un giorno il nostro arrivo che rischiare di doverlo portare sull'isola con le cattive maniere; non vorrei che mi si incattivisse, il pargolo... Credo abbia ragione Gottingen quando dice che a Eltersdorf devi entrarci con lo sguardo d'agnello, con la coscienza davvero a posto... Altrimenti chi vuoi che si fidi, a mostrarti certe cose? Immagina se ci mandassimo Belanius, con quella faccia di merda, a Eltersdorf... Scoprirebbe a malapena come s'arriva al cesso...
Caro mio, questa lettera ti sarà recapitata direttissimamente dalle fide mani di Jonk; a proposito, sta qui con me, lo stronzo, ci tiene a mandarti i suoi saluti... Che coglione, gli è sfuggito che la lettera deve portartela lui, di persona! Anche a lui piacciono le aporie eleatiche... Poveraccio, è ignaro quasi quanto l'italiano di quel che sta accadendo. Non appena Jonk ti consegna la lettera, insomma, non appena l'hai letta, il che dovrebbe accadere pressappoco tra tre giorni, mettiti all'opera; io e il ragazzo arriveremo presumibilmente una settimana dopo di Jonk, e di questa cazzo di lettera. Allora tu e Belanius avrete già organizzato tutto, o quasi. Compris?
Che dire capo, in culo alla balena e a presto rivederci.
Ziga

PS: date anche una ripulita al locale, già che ci siete...


DO UT DES (Parte XII)
"E cosa ti fa pensare che sia successo davvero qualcosa?". Il Selvaggio non poteva essere più ostinato nel controbattere i discorsi del Dottore.
"Capisco che tu sia restio a raccontare. Ma ricorda che io posso aiutarti". Il Dottore insisteva quasi supplichevole.
"No, Doc. Lei non ha capito: io non voglio nè ho bisogno di alcun aiuto. E non sarà certo qualche giramento di testa a farmi cambiare idea".
"Il tuo non è un giramento di testa. E' patologico. Sono effetti ben precisi di una causa altrettanto precisa. E io potrei aiutarti a risolvere il problema".
Il Selvaggio alzò la voce, spazientito: "Il mio non è un problema. Io non ho nessun problema. E nessuno si è mai offerto di aiutarmi in passato e chi lo ha fatto, non mi ha certo aiutato". Dicendo questo sui suoi occhi era piombato un velo di tristezza, di profonda e malinconica tristezza.
Nel frattempo l'Oste, che era rimasto a pulire il bancone in qualità di ascoltatore non invitato, dovette fare del proprio meglio per calmare un paio di clienti abituali che dal fondo del locale, infastiditi dal sentire urlare, si stavano alzando per sistemare la situazione anche con le brutte, se era necessario.
Il Dottore si sentiva come davanti ad un muro. Incapace di abbatterlo, incapace di scavalcarlo, incapace di girarci attorno. "Senti ragazzo, non mi interessa il tuo passato. Non mi interessi tu. Io ti dò una mano solo perchè tu la puoi dare a me. Do ut des. Niente di più. Niente di meno. Non ti dà fastidio sentirti manipolato? Usato? Ricattato, quasi? Ebbene, almeno io posso regalarti sufficiente consapevolezza della tua situazione per farne ciò che vuoi in maniera cosciente e non selvaggia come adesso".
"La mia situazione è chiara. Sono appena uscito dalla prigione. E sembra che tutti siano contro di me o vogliano qualcosa da me. E questo non mi sta bene".
"Questo è quello che credi tu. I guai te li cerchi da solo, come con il marinaio di Barbablù. Me lo hanno raccontato. Comunque io cerco una persona collaborativa. Se non collabori peggio per entrambi. Ma non credere che l'Oste tenga la stanza al piano di sopra occupata per te senza motivo. Per adesso gliel'ho chiesto io. Quando mi ha chiamato che eri svenuto. La stanza almeno quella ti serve finchè non trovi un altro posto, non conosci nessuno, sei appena uscito, e io e l'Oste siamo le due uniche persone che hanno cercato di parlare con te. Riflettici su questo".
Il Selvaggio non sapeva cosa rispondere. Aveva seguito tutto il ragionamento, non perchè lo interessasse, ma solo perchè voleva poi controbattere ulteriormente le parole dell'eburneo interlocutore. Ma piano piano che ascoltava, a malincuore fu costretto ad ammettere a se stesso che in fin dei conti il Dottore aveva ragione. Non gli importava che fosse sincero o no per quello che riguardava il resto, ma se non gli dava retta si sarebbe potuto trovare in mezzo ad una strada. O peggio ancora, sarebbe potuto finire nuovamente dentro Eltersdorf, e questa era di gran lunga la cosa che gli impediva di rispondere con il "no" decisivo, quello che avrebbe chiuso la conversazione definitivamente. Di contro, c'era sull'altro piatto della bilancia una cosa non meno pesante: il suo orgoglio. Già scalfito, già intaccato in più di un'occasione, temeva che se avesse ceduto adesso sarebbe sprofondato irrimediabilmente. Ma il carcere almeno una cosa gliel'aveva insegnata, bilanciare il suo istinto con una forte razionalità analitica. Il Selvaggio si sentì davanti a un bivio. Intraprendere la via più buia significava dimenticare il passato, ma avere un futuro altrettanto incerto. Intraprendere l'altra via significava fare luce sul proprio passato e con la stessa fiaccola illuminare il proprio avvenire. Era ad un bivio, in giacca e cravatta, elegante per una decisione importante; era ad un bivio, con la ventiquattrore stracolma di documenti e archivi; era ad un bivio con una bombetta in mano, pronto a salutare cordialmente una delle due strade del proprio destino. Alla fine decise che stava esagerando, stava dando troppa importanza a quel momento, che non poteva essere così fatidico; ignorò il peso dei rispettivi piatti della bilancia e scelse ancora una volta una via di mezzo.
"Do ut des, Dottore?"."Do ut des". Il volto del dottore si illuminò. Sapeva quanto il Selvaggio fosse combattuto e quanto gli costasse quella domanda. Una domanda che non era un "si" ma non era neanche un "no", e per adesso era un risultato più che discreto.
"E allora facciamo a modo mio, Doc. Do ut des. L'ho visto quel film, quando stavo dentro...ma non mi sono mai immedesimato nel serial killer con la museruola, nè lei ha le tette di quell'agente del FBI, d'altronde...Do ut des, ma inizi lei. Per adesso sto al suo gioco. mi riservo il diritto di rifletterci e mandarla a quel paese. Adesso dimmi, Doc...a cosa sono dovute quelle visioni?"
Il Dottore, se non fosse stato un gesto mal interpretabile, si sarebbe sfregato le mani. Sfilò dal pacchetto una sigaretta, un'altra la porse al Selvaggio. Quindi fece brillare davanti ai suoi occhi la fiamma dell'accendino. E ancora con la sigaretta in bocca, senza curarsi di soffocare il proprio rinnovato vigore, la propria eccessiva emozione, vittoriosamente quanto teatralmente affermò: "Preparati ad essere investito dal fuoco sacro della conoscenza!".
Smettere di dormire (parte XI)

Quando giunse a Bonholm Antipyrgos era già quasi al verde. L'ultimo gesto assennato che aveva compiuto prima di lasciarsi inghiottire da un vortice di baccanali era stato comprare una casa al centro di Roma; un bell'attico dietro Piazza Farnese, grande, luminoso, ristrutturato di fresco. La matrigna l'aveva aiutato nelle pratiche d'acquisto, ansiosa in fondo di sbarazzarsi di quel ragazzino saputello e crapulone, ora che il dottor Stelvio era morto; e poi, altro che ragazzino, oramai era grande, era quasi un adulto.
Antipyrgos diede alla casa un arredamento essenziale ma accurato, salvo poi riempirla in pochissimo tempo di libri e libri; cataste di volumi polverosi assediavano ogni angolo, ogni ripiano, e c'erano libri persino nei bagni. Libri sui davanzali, libri sopra e sotto i letti, nella credenza, su tutte le sedie di casa. Conoscere di persona ragazzi quali Eco, Malerba, Sanguineti gli aveva messo addosso un'avidità di cultura che rasentava la pazzia.
Il giovane oramai aggrediva voracemente ogni istante della propria vita. Di giorno seguiva i corsi all'università, poi si intratteneva a discutere di filosofia, letteratura, politica a casa di questo o quell'amico, o nella propria; si ascoltava jazz, si beveva molto whiskey e molto caffè.
Due o tre volte la settimana Antipyrgos prendeva parte alle riunioni della sezione, senza grande entusiasmo, s'appartava in un angolo e fumava in silenzio, seguendo con lo sguardo i palleggi del dibattito fra i vari interlocutori, quasi quei discorsi gli fossero matericamente visibili; questo mancava loro, forse: un'anima. Provava una certa insofferenza verso quella voga imperante di barba e baffi lunghi; nelle donne amava invece quegli enormi occhiali da sole e le fasce per i capelli. I compagni lo chiamavano Fosco per via della sua aria scettica e schiva; il nuovo nome prese facilmente piede tra tutti i conoscenti di Antipyrgos, se non altro per la maggiore facilità di pronuncia e memorizzazione rispetto al nome di battesimo.
Per qualche tempo s'era dedicato persino alla cura del proprio corpo, poi la dolce vita aveva preso il sopravvento; la notte non dormiva quasi più, a casa sua era un incessante brulicare di studenti, attivisti, qualche attore di media fama, qualche attrice di alto bordo... Perché la sua testa funzionasse a pieno regime ma riposasse anche durante la veglia, trangugiava lungo tutto il giorno grandi tazze di caffè con due dita di whiskey e qualche goccia di benzodiazepina. Talora, nel bel mezzo di uno dei suoi festini notturni, s'abbandonava a prolungati stati catalettici, i quali non gli impedivano di continuare a dialogare, sia pure in maniera un poco originale, con i suoi invitati.
Forse andò a Vienna per trovare rifugio da una routine che lo stava rapidamente debilitando, nel fisico e nella mente: era oramai piuttosto grasso, faceva fatica a memorizzare le minime ovvietà, era spesso preda di lievi e rapide allucinazioni della vista e dell'udito. Per di più i suoi soldi stavano finendo.
Un giorno, ai giardini della biblioteca imperiale, gli appare Ziga: "Hai dei fiammiferi?"
E gli racconta che c'è un modo nuovo di vedere le cose. Che c'è davvero un modo per smettere di dormire. Lo porta con sé in un luogo assurdo, lo introduce ad un'assurda comunità. Il Café di Bonholm era un luogo finemente arredato, sempre ben frequentato; vi si respirava un'aria di consapevole abbandono. La vita di Fosco cambia in pochi giorni: non ha più bisogno di bere, ottiene ciò che vuole senza alcuno sforzo, può dedicarsi serenamente alla lettura, alla scrittura. Passa la gran parte del suo tempo tra le quattro mura del locale, di giorno e di notte. Non dorme mai.
Poi, d'improvviso, la morte di Kittelmann, l'arresto. Non ha soldi per un avvocato; quello d'ufficio, Belanius, gli consiglia di confessare; alcune attenuanti generiche gli evitano l'ergastolo.
IL DOTTORE EBURNEO (Parte X)
Il Selvaggio non poteva sapere quanto tempo fosse passato. Quel maledetto orologio a muro si ostinava nell'affermare la sua costante bugia delle 7 e 03. Molti dicono che quando stai dentro impari a scandire le ore mentalmente, a riconoscere e contare i giorni, ma è tutta una balla: in realtà perdi la concezione del tempo e vivi in un limbo in cui l'alba ed il tramonto si ripetono senza uno schema fisso. Stava ancora una volta appoggiato al bancone del bar, aspettando con impazienza che la porta alle sue spalle si aprisse. Era stata una giornata di magra per il locale, non c'era stato l'andirivieni costante della giornata precedente alla partenza di Barbablù e della sua ciurma. L'Oste era stato tutt'altro che di buona compagnia, ma anche il non aver parlato - osservò il Selvaggio - poteva essere considerato una cosa tutto sommato positiva. La radio trasmetteva solo spezzoni di brani (tutti decisamente poco entusiasmanti) interrotti dal tipico ronzio fastidioso che si sente quando l'antenna prende male un segnale già di per sè confuso e instabile. Confuso e instabile...così si sentiva il Selvaggio. Come una radio rotta, inutile, una cianfrusaglia non buttata per pigrizia del suo proprietario. Confuso e instabile.
La porta si aprì in quel momento, facendo passare uno sbuffo d'aria gelida e pungente. "Incredibile come cambia il tempo in fretta" affermò una voce da dietro un impermeabile ben chiuso. Il Selvaggio era già infastidito: perchè parlare quando non si ha interlocutore? Perchè non risparmiare fiato? Perchè sedersi proprio accanto a lui? Perchè non lasciare in pace la gente come lui? "Vedo che ti sei ripreso alla grande dalla sbornia, roscio". Era il Dottore. Il Selvaggio si voltò lentamente per guardarlo in faccia. Candido di capelli e di carnagione, un lungo ciuffo ribelle sfuggito all'elastico della coda che tradiva un passato di scorribande adolescenziali e avventure più adulte, una espressione di chi è sicuro di sè, di chi vorrebbe poter ridere di tutto, di chi guarda gli altri dall'alto in basso. E non potè fare a meno di notare quella sua plasticità nei movimenti, quegli occhi socchiusi, quelle due fessure dalle quali partivano feroci stilettate. Sembrava anche più giovane dell'età che doveva avere; il volto, benchè scavato e magro, era troppo liscio e ben curato per un sessantenne: ne dimostrava una ventina di meno, forse addirittura venticinque. Miracolo di una alimentazione sana. E dei lifting.
"Non ero ubriaco. Dovresti saperlo se sei un dottore serio". Neanche il Selvaggio si poteva lamentare sotto l'aspetto fisico: in prigione aveva avuto modo e tempo di allenare non solo lo spirito. E poi i mulatti mantengono sempre una pelle più levigata e giovane.
L'Oste si intromise: "Lascialo perdere, Doc, è fatto così. Intrattabile".
"Eh già, mi avevi avvertito anche l'altra volta. Non deve essere facile uscire di galera e subito rapportarsi con il mondo". Il Selvaggio sembrò quasi ringhiare, ma non lo interruppe. "Ma è proprio per questo che sono qua. L'altra volta hai avuto delle visioni, parlavi anche nel sonno, vaneggiavi mentre ti rasavamo i capelli. Perchè non mi racconti quello che hai visto?".
"Perchè non te ne vai affanculo?". Rispose a denti stretti, come sibilano le serpi. "Cosa sei, uno psichiatra, uno psicologo?".
"No, nessuno dei due, non sono un fottutto strizzacervelli". Lo disse avvicinandosi, quasi a sfidare il Selvaggio sul suo stesso terreno, quello della volgarità. "Ma sono qui per aiutarti. So che cosa ti ha provocato quelle visioni". E afferrò la mano del Selvaggio, come in preda ad un furore sacrale.
Il suo interlocutore spostò la mano, notando quanto fosse lampante la differenza tra la propria bronzea pelle e quella eburnea del Dottore: "Bene, Doc, e allora dimmi prima di tutto, perchè mi vuoi aiutare?"
Il Dottore si rimise composto sul suo sgabello e smise di guardare il Selvaggio negli occhi, ma fissò il muro davanti a sè. "Perchè voglio che sia tu ad aiutarmi, poi". Non c'è che dire, il Dottore aveva il senso del colpo di scena.
"E in cosa potrei esserti utile, io? Un relitto? Un poco di buono? Un attaccabrighe?". Stavolta il Selvaggio era preso dalla sua solita morbosa irrefrenabile curiosità.
"Noto con piacere che hai un'alta considerazione di te". Sghignazzò il dottore. Quindi tornò serio in un lampo:"Mi devi svelare i segreti della prigione di Eltersdorf. E solo tu puoi aiutarmi. Tutti coloro che sono già usciti da quel posto non hanno potuto farlo. Ormai, anche se il mio viso non lo direbbe, sto invecchiando, e tanto tempo fa incontrai una persona che mi aprì gli occhi. Se fai il dottore non puoi pensare solo ai soldi, alla pensione, alle vacanze. Hai abbracciato un ideale.". Prese fiato, come si gli costasse rivelare ciò che ormai aveva iniziato a dire. "E lo hai abbracciato fino alla morte".
Era necessario un altro respiro profondo prima di continuare: "Ebbene, circolano da tanto tempo e in tanti posti voci strane sulla prigione di Eltersford. Voci terribili. E voglio scrivere un libro. Voglio riportare queste voci. Voglio sentire queste voci. Voglio render noto tutto ciò che succede al suo interno. Voglio sapere dall'inizio alla fine quello che ti hanno fatto". E indicando il petto del Selvaggio all'altezza dell'orgogliosa effige del penitenziario ripetè solennemente: "Voglio sapere quello che è successo".

martedì 5 settembre 2006



Una volta che hai capito il flusso, c'è la questione della quantità. E non si tratta di imparare a gestirla. La quantità dev'essere torrenziale.

[Peter Porcaro, La prima volta che ti ho visto]
Antipyrgos Parlagrieco (parte IX)

Suo padre era forse un sottufficiale dell'aviazione fascista, sua madre di certo una giovane donna libica. Il fatto è che Antipyrgos non conobbe né l'uno né l'altra.
Un'anonima infermiera e Stelvio Parlagrieco, un medico civile italiano che viveva a Tobruk dai tempi della Grande Guerra, l'avevano aiutato a nascere il 28 giugno del 1940, nell'ospedale da campo n°23. Apparve loro un esserino esile e mulatto, si disse che difficilmente sarebbe vissuto a lungo e che in fondo era meglio per lui: la madre era morta dandolo alla luce, e Tobruk era teatro di una guerra che non sarebbe finita tanto presto e che avrebbe lasciato un'eredità di miseria e distruzione.
Pulirono il suo gracile corpo di neonato con del decotto di parietaria: le larghe provviste di medicinali e disinfettanti giunte appena una settimana prima, del resto poco adatte alla cura di un bambino appena nato, s'erano esaurite in fretta con l'infuriare della battaglia; ma l'anonima infermiera s'intendeva di erboristeria e non di rado coglieva a piene mani dal vario fogliame selvatico che abbondava alle spalle dell'ospedale; tutte cose buone, pare, per infusi ed impacchi.
L'anziano medico, tronfio di vezzi letterari oltre che ricco di un'umanità rara in tempo di guerra, volle che il bambino si chiamasse Antipyrgos, il nome con cui era conosciuta Tobruk presso i greci, ad auspicargli una vita "piena di grazia", lontana dall'orrore e dalla sofferenza. Lo fece condurre all'orfanatrofio di Tripoli, dove periodicamente e spontaneamente si recava a visitare i bambini, ripromettendosi di portarlo con sé in Italia non appena la guerra fosse finita; d'altronde Parlagrieco giurava a sé stesso che nel suo paese d'origine avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita.
Di fatto sul finire del 1945 il vecchio medico ed il piccolo sono a Firenze. L'uomo ha preso in moglie una ricca e giovane vedova di guerra. Antipyrgos cresce pieno d'attenzioni, bruttino d'aspetto ma nobile nell'animo; s'appassiona alle lettere sin da piccolo, poi frequenta il liceo, si iscrive all'università. Stelvio Parlagrieco muore nel 1958, all'età di ottantatré anni. Antipyrgos, che ne ha appena compiuti diciotto, intraprende un'esistenza dissoluta, grazie ad una generosa eredità. Nel '62 è a Roma, città in cui si trattiene per tre anni; inizia ad interessarsi alla politica, frequenta le sezioni giovanili del PCI, entra in contatto con Nanni Balestrini e Luigi Malerba; legge le biografie di Stefan Zweig. Quindi parte alla volta dell'Austria per approfondire gli studi letterari.
E' a Vienna che incontra Ziga Leitner, un giovane, brillante scrittore e poeta russo-tedesco che si trova nella capitale austriaca per quel che sembrerebbe un soggiorno di piacere. I due stringono da subito una sincera amicizia; Ziga propone ad Antipyrgos di trasferirsi nella sua casa a Bonholm, l'isola del Mar Baltico dove egli risiede stabilmente. E' lì che Antipyrgos viene introdotto nel circolo letterario del Café Absurd. Siamo nell'estate del 1965.
A quel tempo il proprietario del caffè è Mario Kittelmann, un mecenate originario di Liegi che ha guadagnato una fortuna producendo birra bianca in Germania Ovest negli anni della ricostruzione. Kittelmann viene assassinato poche settimane dopo l'arrivo di Antipyrgos a Bonholm. Il giovane viene arrestato la notte stessa, giudicato colpevole dell'efferato delitto e condannato a trenta anni di reclusione, da scontare nel carcere galleggiante di Eltersdorf. Per la stampa russa e tedesca egli è "Il Selvaggio".
Nel frattempo Ziga Leitner ha lasciato per sempre l'isola di Bonholm. Per sempre...

lunedì 4 settembre 2006


Tra gli artisti più perversi, ammiro e temo quelli che non hanno paura delle proprie perversioni. (Non è un aforisma e nemmeno una citazione, è una cosa che m'è venuta in mente così, oggi, punto e basta.)

[Micheal Costanzo, Un paio di cose che non ti dirò mai]

domenica 3 settembre 2006


LA BARBA FINTA (Parte VIII)
Tutto sembrava essere a posto. Allora si guardò intorno alla ricerca del proprio tabacco. Lo trovò sparso a metà disordinatamente sul tavolino di fronte al letto. Si girò una sigaretta. Rimase a rimirarla, compiaciuto del proprio lavoro. Quindi prese l'accendino e la accese. La sua piccola stanza, il suo cuscino, il suo letto di sempre. Forse. O forse no. C'era qualcosa che non andava, che non lo convinceva, una strana sensazione. In fin dei conti era uscito da poco dal carcere. Il suo letto "di sempre" nella "sua piccola stanza" era ormai diventato la brandina sporca, scomoda e con le molle rotte di quella piccola cella poco illuminata. Non volle indugiare sui particolari ancora così vividi nella sua mente: stava mentendo a se stesso, quella stanza non era sua, e una volta resosi conto di questo si sforzò, si sbrigò a cambiare il suo pensiero. Controllò ancora la sveglia. E per quanto il suo sguardo dubbioso la interrogasse, la risposta muta e lampeggiante era sempre la stessa: 7 e 03. Non era possibile. Doveva essere passato almeno qualche minuto. Ma non l'aveva messa lui la sveglia a quell'ora? Si, l'aveva messa lui perchè non gli piacevano le gerarchie, vero? Perchè non gli piacevano le quantità prestabilite, no? Perchè odiava le convenzioni numeriche...era così, era così. Eppure l'insistenza con la quale tutti questi dubbi bussavano alla porta del suo cervello non lo convinceva e la testa gli stava scoppiando. La prima domanda che doveva soddisfare riguardava sempre il dove fosse.
Alla ricerca di un indizio convincente, si avvicinò alla finestra, scostò le tendine leggermente. E quello che vide al di fuori lo lasciò senza parole. Vide il mare. Una distesa infinita di mare, un mare brillante, limpido, freddo, inespressivo. Era ancora sull'Isola, su Bonholm. L'Isola della prigione, il crocevia di tanti traffici commerciali ma per lui soprattutto l'Isola della prigione nella quale era stato rinchiuso. In lontananza si riconosceva una nave. Un vascello di altri tempi. Maestoso con i suoi vessilli rosso sangue che si agitavano al soffio del vento. Sullo sfondo un meraviglioso lucente tramonto. Era la nave di Barbablù partita poche ore prima. Lo sapeva. Ne era sicuro.Allora corse a sciaquarsi il viso con entrambe le mani.
Energicamente. Quasi a cancellare quanto aveva appena visto. Non ci riuscì. In compenso successe una cosa che non si sarebbe mai aspettato. Infatti, l'acqua scollò via la folta barba dal suo mento e dal suo collo. Era finta! Attaccata a quella vera, quella trascurata di chi da un po' non perde tempo in rasoi e cose simili. Che brutto scherzo incollargli quella barba finta, "che stronzata" pensò. Era una cosa completamente irrazionale. Non aveva alcun senso, non aveva alcun motivo. Evidentemente era stato l'Oste, forse aiutato da qualcuno, e così gli avevano anche rasato i capelli rossi, il secondo regalo dei carcerieri insieme a quel marchio a fuoco sul petto. Terminò l'opera di pulirsi il viso il più accuratamente possibile, quindi indossò le prime cose che trovò in giro e inforcò la porta, risoluto nell'intento di tornare al cafè, per l'ennesima volta indeciso se ricercare spiegazioni o vendetta.
Non gli ci volle molto. Attraversato a lunghe falcate il pianerottolo di legno, scese per la scala a chiocciola e si trovò immediatamente all'interno del locale al piano terreno. La scala era stata costruita apposta per ingannare la prospettiva degli avventori del locale. Coloro che si fossero trovati in quel momento all'estremità opposta del bancone, avrebbero visto, con sommo stupore, il Selvaggio sbucare fuori dal muro, invece che da dietro un angolo: un effetto sorprendente dovuto anche alla carta da parati psichedelica, che sembrava avvolgere i muri senza soluzione di continuità e ingannava anche gli sguardi attenti.
L'orologio a muro segnava le 7 e 03. Ma il Selvaggio non ci fece caso: era un'ossessione che ormai gli era fin troppo familiare. Si sedette e guardò fisso l'Oste, che ancora non si era tolto quel suo sorriso sornione. "Sia ben chiaro, quella della barba finta non è stata un'idea mia...è stato Barbablù che mi ha pagato per farti questo scherzetto, ma non ho avuto il tempo di dipingerla di azzurro, stavo aprendo il locale". Esordì con la solita loquacità e continuò: "In fin dei conti è un burlone, ma non sarà contento del fatto che non ho finito l'opera che mi aveva commissionato...non voleva che ti scordassi di lui tanto facilmente...". Si lasciò scappare un ghigno di derisione, ma per sua fortuna il Selvaggio non se ne accorse: "Spero che invece tu abbia apprezzato il taglio di capelli, almeno così nessuno capirà a prima vista che sei uscito da Eltersdorf".
"Fanculo, Oste." Fu la risposta più sincera che il Selvaggio riuscì a formulare dopo quella spiegazione troppo facile eppur così convincente. Si stava infervorando ed il tono della voce gradualmente diventò più aggressivo: "Non sto fuori per fare la marionetta a qualcun altro. Decido io come tagliarmi i capelli. Nessuno deve toccarmi!". Si guardò attorno. Poteva continuare a parlare senza temere di essere ascoltato. Quindi insinuò quasi bisbigliando: "E hai drogato il whiskey solo per farmi questo scherzetto?".
"E pensi che ti avrei ospitato in una delle stanze di sopra se fossi stato io? Già che c'ero ti avrei fatto scaricare in un vicolo o ti avrei legato o ti avrei fatto rinchiudere di nuovo". Un brivido corse uslla schiena del Selvaggio. L'Oste aveva ragione, non era stato lui, non era stato il suo whiskey, la cosa non tornava e se c'era qualcosa che non andava era dentro di lui. "Ho chiamato anche un dottore. Non è una buona pubblicità che qualcuno svenga nel mio locale. Mi ha dato una mano lui a farti quel taglio all'ultima moda. Dovrebbe tornare per controllarti. Se ci tieni alla tua pellaccia ti conviene accettare la mia ospitalità e aspettarlo".
Il Selvaggio inizialmente non fiatò, mostrando evidenti segni di insofferenza alle parole del proprio interlocutore. Aveva un formicolio alle dita, quello tipico di chi vuole menare le mani, ma si era ripromesso anche avrebbe cercato di ignorarlo: "Ho fame. Dammi qualcosa da mangiare".
L'Oste sorrise nuovamente, sapendo che non avrebbe potuto ottenere dal Selvaggio un "si" più esplicito di quello.