giovedì 31 agosto 2006


L'AVVERTIMENTO DI BARBABLU' (Parte IV)
Senza rendersene conto il Selvaggio si era addormentato. E probabilmente si era addormentato senza che nessuno se ne rendesse conto, visto che chiunque passasse di lì sembrava non badare a nulla che lo circondasse. Con la testa china su un tavolo nella penombra aveva chiuso gli occhi e dischiuso le porte del mondo dei sogni. Non sapeva quanto tempo fosse passato quando un ticchettio sulla spalla, un ticchettio sempre più insistente, lo destò dal suo sonno rigenerante. Il locale adesso era completamente deserto, tranne per l'uomo grande e grosso che con la sua corporatura muscolosa ostruiva tutta la sua visuale. Maglietta azzurra con maniche corte arrotolate. Al centro della maglietta una immagine stampata che lo ritraeva con espressione soddisfatta, abbracciato ad uno scafandro e tentacoli di piovra che spuntavano alle sue spalle. Occhi azzurrissimi, ciuffo biondo che si affacciava dal cappello. Un cappello da marinaio. E barba tinta. D'azzurro, ovviamente, di quell'azzurro intenso come il mare visto al largo, lontano dalla costa. Una foto di parecchio tempo addietro, essendo il tipo notevolmente invecchiato. La barba, benchè avesse sempre quel colore, era decisamente più folta; qualche ruga aveva donato una parvenza di saggezza al suo viso squadrato. Mentre il Selvaggio si stropicciava gli occhi, allontanando quel che restava di morfeo dal suo risveglio, Barbablù sedette di fronte a lui. E si accese un sigaro, di quelli che con una sola boccata profumano tutta l'aria. "Stammi a sentire, galeotto" iniziò il marinaio "e stammi a sentire bene perchè sono uno di poche parole". Altra boccata. "Quello che hai colpito era uno dei miei uomini, uno dei miei marinai. Ed è stato un errore colpirlo. Ma ora non ho tempo, la mia ciurma deve salpare stanotte stessa: così era previsto". Altra boccata prima di proseguire a parlare lentamente, soppesando le parole per incutere maggior timore. "E non cambio certo il programma per te. Ma non posso permettere certe cose nei confronti dei miei sottoposti. Quando tornerò se ti troverò allora capirai l'errore che hai commesso". All'ennesima boccata sbuffò sul viso del Selvaggio. "Mi hai capito? Perchè non parli, sei muto per caso?". Pausa. Poi, il Selvaggio (che, non avendo niente da perdere, non era rimasto particolarmente intimidito) biascicò un'irritante risposta ironica, sfoderando la classica voce roca ed impacciata di chi non apre bocca da tanto tempo: "No, sono sordo!". Appena tali parole riuscirono a farsi strada tra il fumo, Barbablù accennò un ghigno, quasi a far capire di aver apprezzato la battuta. Quindi l'omone appoggiò sul posacenere il sigaro, si alzò e, dopo un'ultima occhiata, mormorò, scandendo sillaba per sillaba, quasi temendo di essere frainteso: "O la nave o un altro animale".
Quindi se ne andò senza voltarsi, senza dare nè tempo nè adito ad una replica, lasciando il Selvaggio ancora stordito. Stordito dal sonno, stordito dalle minacce, stordito da una certezza ma soprattutto stordito dagli interrogativi. L'unica certezza era l'aver capito come mai nessuno avesse reagito al suo gesto inconsulto: era evidente che avessero tutti timore di Barbablù. Ma perchè? E come poteva un uomo di tale mole mostrare dei movimenti così compassati, controllati, composti? E come faceva a sapere che era un galeotto? E cosa voleva dire "o la nave o un altro animale"? Quale segreto si celava dietro questa bislacca ed insolita espressione? Più se la ripeteva e più si allontanava dal suo misterioso significato. Più se la ripeteva e meno capiva.
Aggrottò la fronte: "O la nave o un altro animale..."
NEL CAFE ABSURD - parte III

Ciò che lo stupì invece, e non poco, fu il fatto che nessuno di quelli che stavano lì dentro reagì. Nessuno si mosse, nessuno fece nulla. Non era normale, pensò quasi deluso Il Selvaggio, che già aveva serrato i pugni, assaporando quel leggero brivido di adrenalina che lo attraversava prima di iniziare una rissa.
Non era normale. Insomma, un tipo, uno mai visto prima da quelle parti, con una faccia non proprio raccomandabile, entra in un bar, uno di quei tanti ritrovi di clienti abituali dove da anni si vede pressappoco sempre la stessa gente, e si ordina un whisky. Un altro tipo, uno che probabilmente in vita sua aveva speso più soldi in quella bettola per i cicchetti che non per comprare i pannolini ai suoi pargoli o un anello di bigiotteria per la sua donna, lo urta per sbaglio, gli fa cadere qualche goccia di whisky, si becca una testata, resta per terra svenuto con una chiazza rossa sulla fronte…e nessuno dice niente? Nessuno interviene? Neanche il barista? Non è normale, proprio no.
Decise di darsi un’occhiata intorno. Magari per cercare di capire dov’era finito.
Innanzitutto, si rese conto che il bar si era improvvisamente svuotato. Eppure, solo cinque minuti prima, avrebbe giurato di averci visto un bel po' di gente là dentro...solo cinque minuti prima...
A prima vista, quel posto avrebbe avuto bisogno di una bella ripulita. Era terribilmente fuori moda, con le poltroncine di finta pelle squartate qua e là come a rivelare la loro povera anima, le luci basse e la carta da parati marrone pigramente ingiallita. Il pavimento, color ebano, era dipinto a tratti di cicche nervose. L’aria era impregnata di fumo, e si riusciva a respirare soltanto perché di clienti non è che ce ne fossero molti. Qualche lampadina era fulminata, e la luce dall'esterno lo bagnava appena.
Fuori, in un anonimo giovedì di fine estate, la gente schizzava veloce, senza nemmeno annusare il tanfo che trasudava al di là dei vetri opachi. Ebbe la sensazione di stare su un treno in partenza, quando vedi gli altri fuori che si muovono ma sai che tu sei più veloce, anche se stai seduto, e che te li stai lasciando alle spalle. Accese una sigaretta inutile, e dopo la prima boccata, che gli raschiò la gola ferocemente, si voltò ad osservare gli altri avventori. Se ne stavano a discutere animatamente seduti su quelle schifose poltroncine. Erano quattro o cinque. Scrutò i movimenti delle loro labbra, i gesti ampi di un tipo con un cappello in testa, i movimenti lenti di un altro con un maglione rosso. Non facevano in tempo a finire una sigaretta che se ne accendevano un’altra, e il posacenere troneggiava al centro del tavolino, come un altare sacrificale. Il fumo sembrava avvolgere quel posto, e proteggerlo, quasi ad allontanare gli intrusi, ad evitare che disturbassero quella strana liturgia. Il Selvaggio si fermò ad osservare quella danza di suoni e spostamenti, di nubi e particelle, senza ascoltare una sola parola di quello che dicevano. Nessuno gli prestò attenzione, anche se continuava a fissarli intensamente.
Improvvisamente capì che quel posto gli piaceva, che ci voleva perdere un altro po’ di tempo, che tanto quello, almeno quello, non gli mancava. Percepì il suono dei suoi muscoli che si rilassavano, il calore del whisky scorrergli dentro, si sentì bene, al sicuro, lì dentro.
Si voltò per chiederne un altro, ma il barista non c’era più. Buttò un’occhiata qua e là. Niente. Chissà dov’era finito. Con un balzo scavalcò il bancone di mogano, prese la bottiglia e si riempì generosamente il bicchiere. Quelli continuavano a discutere, senza degnarlo di uno sguardo. Ma questo essere invisibile, ai loro occhi, poterli osservare senza che nessuno gli chiedesse che cazzo ci facesse lì, non gli dava fastidio, anzi. Sarebbe intervenuto con calma, al momento giusto, come sempre. Per le presentazioni, tanto, c’era tempo, che quello, almeno quello, non gli mancava.

mercoledì 30 agosto 2006

Tutto ciò, riprendendo Falena, somiglia proprio ad una sorta di "romanzo d'appendice" dove anche l'autore è ansioso e trepidante lettore in attesa...


DISSERTAZIONE

Non tutto ciò che è, appare. Non tutto cio che appare, è.
Ciò che io vorrei che ci fosse, almeno in un luogo esiste. Anche se non è. Ciò che io vorrei che non ci fosse, almeno in un luogo non esiste. Anche se è.

Eppur contemplo l'errore e so che potrei sbagliare. E quello che sembra, è. E quello che è, sembra.

Che la questione non risieda nell'essere ma nel sapere? Che la questione sia il confine tra essere e sapere? Che il sapere sia anche essere o che essere possa anche essere sapere?

In fin dei conti, oh esistenza, oh sapienza, oh nulla e niente e iella, prima mi guardi senza riguardo, adesso non mi guardi senza il riguardo che io ti sto prestando guardandomi bene dal guardarti con sguardo senza riguardo.

Come sono solito ripetere: il senno di poi è l'unica scienza esatta.

Avanguardingo 2

Ahi ahi ahi, il discorso si fa duro. Ma la mia, in fondo, era un'idea semplice.

Non c'è dubbio che l'esercizio, ad esempio, della letteratura e quello dell'ingegneria pongano responsabilità diverse e diversamente proporzionate. Un libro fatto male non mette in pericolo la vita di nessuno, chiaro.
E' qui il punto: lo scrittore dev'esse cosciente che ciò che fa è solo un libro. E che ciò di cui fa uso è perlopiù una tecnica. Questa coscienza è una forma di responsabilità.
Ciò non esclude che lo scrittore e l'ingegnere abbiano ruoli e competenze parecchio distinti, caro Falena.
Poi: non ho mai inteso dire che si debba fare della tékhne un fine piuttosto che un mezzo. Ma quello di "espressione pura", mi pare, è un concetto rischioso ed evanescente. Vi piace il free jazz? Allora ben venga l'assolo di trapano (vedi il blog Cineserie e varie futilità). George Antheil scrisse un concerto per venti motori d'aeroplano. Vi interessa?
Non voglio promuovere una concezione funzionalistica dell'arte. Ma mi irrita la sua ottusa sacralizzazione.


IL SELVAGGIO (Parte II)

Sempre appoggiato sull'alto sgabello del bancone, eppur perso nei dedali delle sue speculazioni mentali, il Selvaggio (così aveva intenzione di definirsi da quel momento in poi), venne urtato casualmente da un tizio alle sue spalle. Un gesto del genere una volta lo avrebbe come minimo turbato, se non indispettito. Adesso un qualsiasi tipo di contatto umano era per lo meno inaspettato, "originale" e in quanto tale gradito, benchè involontario, benchè fastidioso. Solo in quel momento si accorse che il brusio era aumentato ed il locale si era riempito. All'urto, il bicchiere, stretto nella ferrea presa della propria mano, vacillò di colpo e quel divino nettare chiamato whiskey ondeggiò come un piccolo mare in tempesta. In parte - non molto per fortuna! - si versò sul bancone. Una goccia che strenuamente cercava di rimanere aggrappata per non cadere, si arrese ben presto al proprio destino e scivolò inesorabilmente lungo il vetro del bicchiere, incontrando il palmo della mano del Selvaggio. Guardò la goccia che sembrava ricambiare lo sguardo e ringraziarlo per averla salvata da quello spreco. Quando stava dentro, curiosando tra gli scaffali della biblioteca della prigione, aveva trovato un libro che parlava proprio di whiskey. C'era una figura che lo aveva incuriosito particolarmente, in cui il liquido osservato al microscopio assomigliava ad un insieme di cellule. O di labbra. E le immaginava incontrarsi e separarsi gioiosamente, splendenti nel loro colore, consapevoli del proprio gusto, mai affaticate da questo loro fondersi e riprodursi quasi orgiastico. Accostò il palmo della mano alle labbra e assaporò quella goccia intensamente, prima di afferrare con decisione il bicchiere e colpire violentemente in testa quel tizio maleducato alle sue spalle. Si rese conto, senza particolare stupore, che certe cose ancora lo indispettivano.

Avanguardingo

Quando incontri uno scrittore gli chiedi: "Come si scrive un libro?". Ma se incontri un ingegnere edile, gli chiedi, per caso, come si costruisce una casa?
Forse sì. Allora significa che sei una persona avveduta: hai capito che, in un caso come nell'altro, quello che c'è da imparare è una tékhne (mi perdonino, i grecisti, l'opinabile traslitterazione): una "perizia", un "saper fare" specifico. Non esiste un "segreto"; ne esiste, semmai, più d'uno; a fare le cose si impara poco a poco, scrutando, ascoltando, provando, sbagliando: dicono così, no?
Eppure c'è un botto di gente che scrive libri, scolpisce, suona e canta ignorando ciò che in un ingegnere edile o in un medico difficilmente manca (almeno in teoria): il senso di responsabilità.
Perdonami, stavolta l'ho detta grossa.

Osservavo quella fantastica carcassa con lo sguardo ebete dell' innamorato. Eravamo soli, io e lei. Avrei voluto dire qualcosa a quei pistoni andati in fumo, ai sedili in pelle ormai stagionata, al volante carico di impronte ormai illegibili. Lei mi parlò con quei suoi occhioni spenti, sussurrandomi parole e sgasate d' altri tempi. Lasciarla lì? non ne avevo la forza..

LA STORIA (Parte I)

Lo sorseggiava senza fretta, appoggiato al bancone del cafè. Quel whiskey invecchiato era l'unica cosa che gli avesse donato un po' di calore una volta uscito di galera. E fissando quel suo colore intenso e apprezzando il suo gusto secco, si perdeva nelle sue elucubrazioni, dissertazioni per lo più prive di significato, ma curiose. Chissà perchè aveva scelto proprio quel posto per brindare alla sua nuova "vita". C'era qualcosa che lo attirava. Cafè Absurd... non un nome come tanti. "O la nave o un altro animale" suggeriva il sottotitolo. Ed anche questo era strano, un locale con un sottotitolo. Come se nascondesse qualcosa. Forse erano state proprio quelle parole ad incuriosirlo. Lui si considerava un "altro animale", magari appena sbarcato dalla "nave" di cui sopra, la "nave" che lo aveva rapito dal suo habitat naturale per poi rilasciarlo allo sbaraglio...uno stato brado che sembrava una nuova cattività. Pensava. Non aveva fatto altro per tanto tempo. Quando si sta dentro o si impara ad urlare o a pregare. Lui non aveva fatto nè l'uno nè l'altro. Imparò il silenzio. Pensare, leggere. E ascoltare. Ascoltare le proprie grida rimbombare dentro la propria carne. Ora si trovava in un Mondo Nuovo. Ed era il Selvaggio huxleyiano di questo Mondo Nuovo.

Filosofia o Neorealismo?
Il luogo avrebbe richiesto un silenzio o almeno un discreto colpo di tosse. C'era invece un bisbigliare, rumori di strada, mare, a volte urlati richiami. Lo sfogliare delle pagine batteva il tempo di giovani vite tornate a chinarsi su carte quasi dimenticate. Higuerra scelse il suo posto di lettura, si guardò intorno e sorrise ai conoscenti. Lasciò cadere fogli di fotocopia e libelli di critica cinematografica sul tavolo di fronte a me. Il suo vestire lasciava intuire una ricercatezza stilistica, una riflessione su scarpe-pantaloni-maglietta di non poco conto. Si sedette, mi guardò in segno di saluto. Ricambiai il gesto e tornai alla mia storia. Cominciò il suo svogliato errare tra i sentieri di una critica che sembrava non affascinarlo. Era consapevole della sua situazione e dopo una manciata di noiosi minuti si rifugiò nella lettura appasionata di un Barthes d'annata. Il suo volto si distese, si fece sereno, i sentieri neorealisti-Rosselliniani sembravano lontani. Provai gusto nel vederlo soddisfatto della sua lettura. Seguì un gesto che partì dal Bisca, sfiorò LeCannù e fu piacevolmente carpito da Higuerra e da me. Ci alzammo in uno stridere di sedie e ci regalammo il gusto del fumo pomeridiano. Ci furono parole, saluti, discorsi che tendevano alla cazzata, poi rientrammo. Higuerra si attardò per poi comparire serio ed elegante con in mano tre volumi di Schopenhauer. Da Barthes a Schopenhauer... Higuerra aveva stupito ancora. Lesse concentrato di pessimistiche teorie, sfogliò attento le preziose pagine. Non so quanto durò la sua analisi, ma Higuerra aveva tutta la mia stima.

martedì 29 agosto 2006


DesaPariser nº 0.nueva


Aquella en que el nuevo usuario del blog, como agradecimiento a tal invitación, se admite tan aficionado como Higuerra a los juegos de palabras.
FIAT LUX

La luce si accese. Così potè leggere finalmente la lettera che aveva tra le mani. E mentre scartava avidamente la busta i suoi occhi brillarono, aspettandosi chissà cosa. Rimasero delusi. "Forse è per questo che i desideri non hanno un interruttore - non potè fare a meno di riflettere - meno facile è scartare la carta da regalo, più l'immaginazione può volare sui prati della felicità". Ma non perse tempo a biasimarsi per averlo pensato. Le solite misere speculazioni linguistiche. Risoluto come non mai si promise di non ripeterle, come si promise di frenare la propria curiosità nell'aprire la lettera successiva che sapeva sarebbe arrivata puntualmente poco tempo dopo. Suo malgrado, sapeva dentro di sè che l'unica cosa che sarebbe davvero riuscito a fare, sarebbe stata solo quella di indugiare nel premere l'interruttore (anche con un pizzico di ansia, temendo di essere troppo rapido) e scartare la busta più lentamente...


Puoi rubarmi un'idea,
non uno stato mentale.

domenica 27 agosto 2006


Insomma tempo fa parlavo con un tipo, e questo mi diceva una cosa interessante, mi diceva che bisogna sempre tenere a mente la differenza tra non so che e non so quant'altro. Adesso non mi ricordo bene com'era il discorso, però m'è rimasta impressa questa cosa della differenza.

sabato 26 agosto 2006


FABLES OF FAUBUS
In questa mattina che suona un Jazz di Mingus, dedico qualche libera sillaba a questo articolato spazio. Lo faccio perchè sono stato invitato, perchè Higuerra ha gentilmente offerto una poltrona al vecchio Scalia. E' una stagione confusa, che ancora puzza di caldo e di umidità, ma c'è qualcosa che si muove, che sembra mutare. Ci sono idee che ronzano e storie che nascono ogni pochi minuti. Ci sono personaggi che si delineano all'orizzonte delle nostre fantasie, c'è un ridere di gusto...
Tutto sommato c'è un bel tempo da queste parti.

giovedì 24 agosto 2006

Lo svantaggio di lavorare in radio
era che dovevo alzarmi presto.
Il vantaggio era
che non dovevo lavarmi la faccia.

martedì 22 agosto 2006


Quando ci entrava, oramai, era assalito da una pietosa desolazione; tanto più che era stato lui ad averlo reso così gelido, così insipido, così inospitale, quel luogo. Quel luogo era orfano di lui, soprattutto.
Non c'era un solo oggetto che gli appartenesse davvero, o che significasse per lui qualcosa in più del dovuto: i piatti in cucina erano piatti, non una sola crepa a ricordargli d'averli seppur malamente usati in qualche occasione; le sedie erano sedie, non un solo piolo consumato a sottolineare le sue scomposte abitudini di vita; la scrivania era una scrivania... o forse no. C'erano oggetti, come la scrivania, che col disuso avevano smesso persino di essere se stessi: la pipa era un soprammobile, come tutte le pipe, del resto. I dischi, poi, erano un'eredità di generazioni passate, dunque poco idonei a dargli notizie di se stesso.
Anche la scelta della carta da parati, che all'epoca gli era sembrata azzeccatissima, ora si rivelava poco in sintonia col suo stato d'animo. Eppure i colori erano rimasti gli stessi, il tempo trascorso non era bastato a sbiadirli, né a farli passare di moda. Poi, in altri tempi, quelle tinte gli erano parse significative in ogni condizione di luce: col sole alto, al crepuscolo, all'alba (per quel che ne sapesse), al piccolo lume della scrivania, addirittura sotto gli sconcertanti fari alogeni che aveva fatto installare nel salotto all'inizio dell'inverno, in preda a violente quanto effimere velleità di produttore cinematografico indipendente.
Cinematograficamente ipotizzò, senza convinzione, un finale alla Freddy Nasone: era giunto il momento di cambiare casa.

sabato 19 agosto 2006


Se il buongiorno si vede dal mattino - pensò Higuerra - sarà meglio assistere a questa giornata con l'avanti veloce, fermandosi a guardare solo quando si intravede una scena interessante, come si fa coi film erotici di basso livello.
Ma c'era, a pensarci meglio, un'altra soluzione, più o meno semplice: mettersi a fare una qualsiasi delle cose rimandate o accantonate nel passato recente, buttare giù il ritornello per una canzone di cui si ha solo la strofa, scrivere una mail al relatore, smettere di fumare. Dare insomma un senso arbitrario ad una giornata che si preannunciava sorda e smemorata.

L'aver intuito il rischio non metteva certo al sicuro il nostro eroe.

venerdì 11 agosto 2006


Sparigi n. enne

Si tratta del capitolo in cui Higuerra raggiunge Rodriguez in Ispagna. Il tempo di un asciutto ragguaglio col fratello di lei, Curro, e di una rapida escursione per gli ambenti oblunghi della sua abitazione, a Pozuelo, poi i due partono nottetempo alla volta di Cadice, o giú di lí. Il viaggio é un calvario allucinato e rinfrancato a malapena da rari e gelidi strappi di sonno. A San Fernando - il sole é sorto appena - l´imperscrutabile Belén traghetta i due protagonisti presso l´edonista Jose Antonio Gonzalez - zio di Rodriguez - che li accoglie con buffa discrezione ed offre loro la completa disposizione della casa e un dignitoso digiunario; quella di Jose é una dimora assurda, appesa - tramite un nodo di scale nude - ad un mare pallido, bambinesco e ventoso. Il capitolo si conclude con Higuerra che, ingiustamente insonne, diteggia quattro righe in attesa del prossimo pasto.

mercoledì 9 agosto 2006


L' insostenibile leggerezza del palco, col suo fardello di luci e le sue inesauribili risorse, accompagnò Le Cannù come una azzurra nave da crociera nel limbo delle sensazioni inespresse e turbinanti.. Era bello ascoltare le chiatarre acide, le armonizzazioni allegre dei musicisti attempati ( ma solo nella forma). La sostanza regalava continue infusioni di allegria e deja vu, la massa vociante e chiacchierona era per Le Cannù soltanto un orpello colorato ma bidimensionale..
Avrebbe voluto che quel momento continuasse per tutta la notte, ma era consapevole che, sulle note dei brani più famosi, avrebbe incominciato a respirare quella sensazione di amarezza per un racconto breve che si spegne quando ha finito di autocompiacersi .
Gli sarebbe rimasto il ricordo fotografico, elettrizzante ma destinato a sbiadire, e l' amara consapevolezza di non aver mai condiviso un momento così particolare con una compagna che fosse degna di questo nome.
D' altronde, Le Cannù ne aveva di cocci da raccogliere nel suo personalissimo porto delle nebbie.
Sarebbe andato a casa, e avrebbe fumato con calma l' ultima sigaretta della giornata ,nella speranza che non avrebbe mai terminato di consumare sé stessa. Avrebbe guardato lo stesso, immutabile cielo, e forse sarebbe stato al riparo, per un pò.
Il cielo l' avrebbe ricoperto come una gigantesca e soffice coperta, le stelle sarebbero state i suoi peluches.

Notte, di nuovo notte, col suo carico di musica già scritta e melodie che qualcuno stava componendo...

lunedì 7 agosto 2006


"A volte mi sorprendo ad aspettarmi che il blog si nutra da sé.
E' vero, esso pare caduto in un'insostenibile desolazione, ben difesa da questo fondale blu marino; ma di mare alto, di mare profondo. Quasi d'abisso.
Ciò non rende giustizia ad un mondo carico di tinte interessanti. Se poi la parola "interessante" non vi piace cercatevi pure un sinonimo".
Higuerra, in quel frangente, sosteneva, tra le altre cose, l'opportunità di placare, per mezzo di laute rincorse, le foghe ormonali suggerite dal periodo storico. Non avesse temuto l'imboscata della buoncostume, avrebbe ben volentieri divulgato - corsa durante e prima e dopo - una di quelle segrete conquiste intellettuali che una persona avveduta suole tenere per sé, e che una persona buona - buona come solo i più intelligenti sanno essere - esige invece proferire a chicchessia: ...

Higuerra era un uomo avveduto, di media intelligenza, un po' timido.

Borges, la sera, vezzeggiava focolarmente le sue remote velleità di lettore; sì, perché Higuerra intuiva che leggere non vale meno che scrivere, a voler fare le cose come si deve. Chi altri, nel raggio di 500 chilometri, avrebbe saputo chiedersi, tanto per dirne una, il perché di quei dodecasillabi al principio del canto XV dell'Inferno? Scalia, forse.

PS: lasciate in pace il volatile.